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Repubblica Dominicana: i dannati dello zucchero

Tra aprile e agosto 2013 ho vissuto in un batey della provincia di San Pedro de Macoris, nella Repubblica Dominicana. Qui e in altri 40 bateyes della zona ho svolto una ricerca di natura socio-antropologica, realizzando centinaia di interviste in profondità e fotografie. Parte del materiale è stato esaminato dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti che nel settembre 2013 ha pubblicato un rapporto in cui stabilisce come la Repubblica Dominicana abbia violato le leggi nazionali e gli accordi internazionali relative ai diritti sul lavoro. Migliaia di haitiani vivono e lavorano nelle piantagioni di canna da zucchero della Repubblica Dominicana in condizioni di semischiavitù.

 

Se nasci ad Haiti non si può dire che tu sia molto fortunato. In sei casi su cento non supererai il primo anno di età, e in otto su cento il quinto. Ma questo è solo l’inizio. In un caso su due non avrai accesso alla scuola primaria ed entrerai in quel cinquantatré per cento della popolazione che versa nell’analfabetismo.

Per lo stesso motivo probabilmente non troverai lavoro e come l’ottanta percento dei tuoi connazionali vivrai sotto la soglia di povertà assoluta. Non per molto, sia chiaro. L’aspettativa di vita infatti oltrepassa di poco i sessant’anni e bisogna sempre considerare l’eventualità che un disastro naturale arrivi a stravolgere un quadro già poco entusiasmante. Ultimo esempio il tragico terremoto del 2010, che in poco più di un solo minuto ha provocato la morte di 300 mila persone e lasciato orfani un milione di bambini e bambine.

Non c’è da sorprendersi se ogni anno migliaia di haitiani decidono di tentare altrove quella fortuna che la propria terra e un destino avverso sembrano da sempre aver negato loro. In molti così intraprendono un viaggio spesso pericoloso per raggiungere clandestinamente la vicina Repubblica Dominicana, con la speranza che il valico della frontiera segni anche la conquista di una vita migliore.

Purtroppo, però, ad attenderli oltre il confine è molte volte un futuro ancora più crudele. Privi di documenti e stremati dalla fame, i nuovi arrivati sono disposti a tutto e finiscono presto nelle mani di datori di lavoro senza scrupoli che sottomettono i migranti a condizioni quasi schiaviste.

Simbolo per eccellenza di questa cruda realtà sono i bateyes, piccoli agglomerati di baracche dispersi tra le piantagioni di canna da zucchero. Creati per ospitare i lavoratori durante la zafra, la stagione del raccolto, nel tempo, sono diventati vere e proprie comunità invisibili, baluardi della povertà e dell’emarginazione, ghetti sociali ed economici riservati alla popolazione di origine haitiana. Ammassati gli uni sugli altri in quelli che chiamano barracónes, uomini, donne e bambini condividono spazi angusti e fatiscenti, privi di finestre, energia elettrica ed acqua corrente, dormendo a terra o su improbabili letti a castello in metallo arrugginito dove un ritaglio di gommapiuma, logorato dal tempo e dall’usura, funge da materasso.

L’attività dei picadores, i tagliatori, è un mestiere duro, sfiancante e pericoloso. Nelle piantagioni si lavora ininterrottamente anche per 10-12 ore al giorno, molto spesso persino la domenica, tagliando quanta più canna possibile. Il sole raggiunge velocemente lo zenit e l’afa diventa insopportabile. Non è raro così che per un momento di disattenzione o per le forze che d’improvviso vengono a mancare si compia qualche errore. In una concezione della vita estremamente fatalista, i braccianti mostrano le loro ferite di battaglia senza enfasi, con la noncuranza di chi è rassegnato all’inevitabile.

Non esiste alcun contratto scritto, men che meno un salario fisso. Si viene pagati a cottimo, in base alle tonnellate di canna accumulate, ma il prezzo di una tonnellata non è chiaro a nessuno e i conti non tornano mai: “loro ti danno quello che vogliono”, ripetono tutti quanti, “…non importa quanto hai lavorato, ti danno quello che vogliono perché tanto non puoi reclamare…perché se reclami non lavori…e se non lavori non mangi”.

Così i braccianti accettano qualsiasi cifra venga loro data, sottomettendosi alla totale arbitrarietà di un sistema di ricatto che trova la sua ragion d’essere nella mancanza di reali alternative possibili. Qui, difatti, la canna da zucchero rappresenta una monocoltura esclusiva e totalizzante, concentrata nelle mani di poche imprese consorziate che si spartiscono un ricco oligopolio.

Dopo la fine della sanguinosa dittatura di Trujillo, assassinato nel 1961, e il ristabilimento di un governo formalmente democratico, le piantagioni e gli zuccherifici della Repubblica Dominicana passarono sotto il controllo del governo, ed in particolare al CEA, il Consejo Estatal del Azúcar, quale organo autonomo deputato a gestirne l’amministrazione. Fino alla metà degli anni ’80 il mercato dello zucchero dominicano continuò ad espandersi raggiungendo livelli di produzione altissimi, superiori al milione di tonnellate, ma già nel 1991 la cifra era rovinosamente precipitata a 340 mila tonnellate, generando la più grave crisi dell’industria zuccherificia del paese.

Le cause di tale collasso risiedevano da una parte nella più generale crisi del mercato internazionale dello zucchero di canna, il cui prezzo era in caduta libera, ma, dall’altra, nella radicata e diffusa corruzione che nel corso del tempo si era andata consolidando nella gestione degli stabilimenti zuccherifici da parte del CEA.

Fu così che nel 1999 venne presa la decisione di affittare le piantagioni e le rispettive fabbriche per un periodo di 30 anni a investitori privati, perlopiù a capitale straniero. Le conseguenze si rivelarono disastrose e a pagarne letteralmente il prezzo furono soprattutto i lavoratori haitiani dei bateyes. Salari infami, condizioni di lavoro disumane, assicurazioni mediche fittizie, pensioni inesistenti, malattie professionali, raggiri, minacce, violenze: sono queste le tristi vicende che ancora oggi scandiscono il ritmo del tempo in questi luoghi dimenticati dal mondo.

Jacques, un giovane haitiano del batey Esperanza che ancora non ha perduto la forza di denunciare i soprusi che la sua gente subisce quotidianamente, urla la sua rabbia:

Stiamo passando miseria! Lavoriamo sempre, dicono che ti pagano l’assicurazione ma non è vero, perché se uno si fa male che si taglia con il machete non lo portano dal dottore, se uno è malato non lo portano dal dottore…allora perché dicono che stanno pagando l’assicurazione se non ti curano? La gente qui sta soffrendo la fame! Guarda dove viviamo…cadono a pezzi queste case…quando piove si bagna tutto qua dentro! Come stanno trattando la gente? E con la canna non si vive…quelli dell’impresa sono venuti qui per sfruttare gli haitiani…noi tagliamo la canna, ma i vecchi non possono fare niente…e stiamo passando miseria, fame e brutte notti…e se proviamo ad andare a chiedere qualcosa non ti rispondono…perfino a botte ti prendono!

Giunti con l’illusione di poter lavorare quei 7-8 mesi che dura la stagione del raccolto e poi tornare ad Haiti dalle proprie famiglie con qualche soldo in tasca, i braccianti finiscono per trascorrere la propria vita nei bateyes della Repubblica Dominicana. Zafra dopo zafra, anno dopo anno, le speranze di rivedere i propri cari vanno affievolendosi e cedono il posto ad una sorta di rassegnata abitudine.

“Quest’anno forse torno, torno al mio paese”, ci confida Antoine, un bracciante arrivato qui più di venticinque anni fa. “Torno ad Haiti…là ho la mia famiglia, mia moglie, i miei figli…” Lo ripete ogni anno, Antoine. E intanto il suo sguardo si perde all’orizzonte, tra i ciuffi delle canne che indifferenti a tutto ondeggiano dolcemente al vento della sera.

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