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Relazioni Usa-Israele ad un bivio?

a cura della redazione di Campidoglio.org

Oggi il Premier Israeliano Benjamin Netanyahu visiterà Washington. Potrebbe essere la prima volta, dopo decine di anni, che la visita di un Primo Ministro israeliano coincida con un raffreddamento dei rapporti tra USA e lo Stato ebraico.

Il Governo di Tel Aviv si era abituato bene durante gli otto anni dell’amministrazione Bush. In Israele considerano Bush il presidente americano più pro-Israele degli ultimi 60 anni. Ma ora il governo di Tel Aviv si presta a scontrarsi con la realtà: gli USA non possono più permettersi di sostenere le politiche Israeliane contro i palestinesi senza che queste danneggino gli interessi americani in medio oriente.

Come sfondo a questo possibile scenario, aggiungiamo che l’attuale amministrazione USA, guidata da Barack Obama è divisa tra coloro che vedono il conflitto in Afghanistan e la situazione in Pakistan come il pericolo numero uno per la sicurezza nazionale americana contro quelli che vedono il programma nucleare iraniano come la minaccia da disinnescare al più presto.

I sostenitori di questa seconda linea sono prettamente falchi all’interno del nuovo governo Israeliano ed i loro “supporters” nella cosiddetta “lobby israeliana” negli Stati Uniti. Questi vorrebbero che gli USA prendessero azioni aggressive ed immediate contro l’Iran, accumulando nel frattempo il consenso di paesi favorevoli ad applicare sanzioni a l’Iran finché quest’ultima non mette fine al suo programma nucleare. Molti nella “lobby israeliana” sostengono che gli USA dovranno usare la forza contro Teheran se la politica di diplomazia di Obama dovesse fallire nel congelare il programma nucleare iraniano.

Ci sono però segnali nettissimi che qualcosa stia cambiando nelle relazioni tra USA e Israele. Un discorso tenuto dal Vice di Obama, Joseph Biden all’AIPAC (American Israele Public Affairs Committee), l’associazione che più rappresenta gli interessi dei falchi israeliani negli Stati Uniti, lasciava poco spazio ai dubbi, poiché Biden ha parlato esplicitamente di fermare l’espansione di colonie israeliane nei territori, la rimozione di blocchi stradali che non permettono il libero movimento di palestinesi nel West Bank e di lasciare più responsabilità ai palestinesi su questioni legate alla sicurezza.

Parole forti che hanno indotto gli ascoltatori ad assecondare, apparentemente, le richieste di Biden, ma il neo-eletto governo di destra a Tel Aviv non sembra avere alcuna intenzione di seguire Biden ed i suoi auspici. Netanyahu, nel tentativo di forzare la posizione americana, avrebbe collegato la nascita di uno stato palestinese con il progresso americano nei negoziati con Teheran.

Anche i media segnalano un leggero allontanamento tra i due alleati. Il New York Times, che è solitamente pro-Israele su quasi tutte le questioni che riguardano lo stato ebraico, ha dichiarato di non credere alle parole di Netanyahu che promette di essere “impegnato a continuare i negoziati”, descrivendole addirittura come “parole vuote”. Anche il quotidiano Israeliano Ha’aretz, dichiara che “Obama diventerà più severo nei confronti di Israele”.

Perfino il famoso linguista ebraico americano, Noam Chomsky ha detto che “Israele potrebbe avere la sicurezza, la normalizzazione delle relazioni e una piena integrazione nella regione. Invece è chiaro che preferisce continuare con l’espansioni illegali, il conflitto e ripetute dimostrazioni di violenza”.

Bisogna chiedersi se il cambio di rotta sia dovuto alla differente visione dei fatti tra l’attuale amministrazione e la precedente, guidata da Gorge W. Bush, oppure se gli USA si siano resi conto che seguire Israele sulla politica mediorientale mette in serio pericolo gli interessi e le nuove strategie americane sia in Medio Oriente che in Asia.

Coloro favorevoli allo spostamento degli sforzi dal teatro mediorientale verso l’Asia sostengono che gli USA debbano favorire una stabilizzazione del Medio Oriente, cosa che gli permetterebbe di ridimensionare le operazioni in Iraq e di aumentare le risorse e gli sforzi in Afghanistan e in Pakistan.

Ma la suddetta conferenza dell’AIPAC ha mostrato che gli israeliani non ci sentono da quell’orecchio. Nei vari interventi tenuti da personaggi dell’AIPAC, si è parlato raramente di Afghanistan o Pakistan, mentre erano numerosi i discorsi che prevedevano scenari apocalittici e di “minaccia per Israele” nel caso l’Iran riuscisse a sviluppare una bomba atomica. Nel migliore dei casi questi discorsi chiedevano sanzioni contro Teheran, mentre altri parlavano apertamente di interventi militari.

Nei stessi giorni della conferenza AIPAC, arrivavano negli USA il presidente afghano, Hamid Garzai e il suo collega pakistano, Asif Ali Zardari per un incontro con Obama. Gli USA sono preoccupati soprattutto dell’evidente incapacità dei due leader di combattere efficacemente contro il ritorno dei Talebani nei rispettivi paesi. Ed è questo che spinge molti all’interno dell’amministrazione Obama a favorire un cambio di rotta nella politica estera, soprattutto nelle zone in questione.

Ciononostante, la difficoltà nell’instaurare una nuova rotta si è manifestata palesemente proprio durante la conferenza AIPAC, che ha visto la partecipazione di più della metà dei deputati e dei senatori del parlamento americano, con discorsi tenuti dai due presidenti delle camere. Tutto ciò serviva a ricordare che i falchi all’interno della “lobby israeliana” hanno una fortissima influenza sul ramo legislativo USA, e potrebbero riuscire a far diventare la questione iraniana una priorità assoluta nell’agenda di politica estera americana, che piaccia o no ad Obama.

Ma i progetti israeliani contro l’Iran stridono clamorosamente con i nuovi obiettivi USA in Afghanistan e Pakistan. Aumentare ora le tensioni con l’Iran (paese che ha lunghi confini territoriali con l’Afghanistan, il Pakistan e l’Iraq) potrebbe creare grandi difficoltà per gli USA in tutti e tre i paesi.

L’AIPAC è fortemente opposta alle aperture di Obama nei confronti di Teheran, e chiede che l’amministrazione USA aspetti poco prima di gettare la spugna e diventare più aggressiva nei confronti dell’Iran. In particolare, l’AIPAC chiede che sia passata una proposta di legge che prevede sanzioni contro aziende straniere che esportano prodotti petroliferi raffinati all’Iran.

Il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ha detto che certe misure si potrebbero prendere in considerazione solo se dovessero fallire gli sforzi diplomatici con Teheran, ma non ha specificato quanto tempo sarebbe stato lasciato ad Ahmadinejad prima di agire.

Le parole di Netanyahu preoccupano gli USA. A marzo, il neo presidente Israeliano ha detto all’Atlantic: “Se dobbiamo agire, agiremo, anche se gli Stati Uniti non lo fanno”. Sempre durante la conferenza AIPAC, l’ex Ministro della Difesa israeliano, Ephraim Sneh, rispondendo alla domanda se Israele fosse disposto ad aspettare il semaforo verde degli USA prima di attaccare l’Iran, disse “In Israele i semafori rappresentano soltanto dei consigli”. 

Il Ministro della Difesa USA, Robert Gates, sostiene invece che un attacco all’Iran avrebbe “l’unico effetto di tardare il completamento il programma nucleare iraniano e renderlo ancor più segreto”. Queste parole vanno comunque pesate attentamente, poichè anche Zbigniew Brzeninski dichiara che “Gates è un baluardo contro coloro che vogliono fare guerra all’Iran o almeno dare il consenso ad Israele per farla”. 

Conoscendo i personaggi in questione, e leggendo attentamente tra le righe, si nota che Gates non nega che l’Iran stia preparando una bomba nucleare, ma semplicemente dice che il programma subirebbe “solo ritardi” nel caso di un attacco. In maniera subdola, Gates sostiene la tesi che il programma nucleare iraniano non sia destinato ad un uso civile, bensì a sviluppare una bomba.

Nel caso di Brzeninski, invece, potrebbe essere che parla per cercare di far confermare Gates (un dei pochi uomini dell’amministrazione Bush confermati da Obama), visto che si diceva che Obama l’aveva confermato solo temporaneamente. Quale miglior modo di far confermare un falco che dipingerlo come una colomba? Magari nel frattempo promuovendo in maniera soft l’idea che l’Iran stia veramente programmando un bomba nucleare con il quale attaccare i suoi vicini in Medio Oriente.

Se è vero che l’apparato politico statunitense rimane ancorato agli interessi israeliani, qualcosa indubbiamente sta cambiando. La recente nomina di Charles Freeman come capo del National Intelligence Council (il consiglio che conduce studi e ne fornisce i risultati alle varie agenzie d’intelligence americane), poi ritirata dopo una campagna aggressiva e diffamatoria condotta dalla “lobby israeliana” ci fornisce molti segali al riguardo: nei circoli politici americani si dice che il “veto” della “lobby” potrebbe aver smascherato il modo in cui quest’ultima tenta di soffocare alla nascita un qualsiasi dibattito pubblico che riguarda la reale virtuosità delle politiche israeliane.

Rimane quindi il dubbio se Israele sarà disposto a rivedere la sua politica estera e, nel caso non lo fosse, se gli USA decideranno di ignorare la crisi in medio oriente che peggiora proprio grazie alle politiche israeliane. 

Considerando il notevole peso israeliano a Washington, e nonostante le flebili promesse di più severità nei confronti d’Israele, è molto probabile che Obama e Netanyahu continueranno lungo la strada percorsa fin’ora. In altre parole, la Casa bianca non è ancora pronta ad usare la carta delle sanzioni e la minaccia di tagliare l’assistenza americana ad Israele, ma l’apertura di un dibattito pubblico su tali questioni è gia un grosso passo avanti rispetto al passato.

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