Quetta-Cutro, vita e morte da hazara
La campionessa pakistana morta nel naufragio di Cutro, cui sono stati dedicati diversi articoli dai nostri quotidiani nazionali e locali, e poi da rotocalchi, anche quelli ‘rosa’ delle ragioni del cuore e quelli assetati di sensazionalismo, ha rappresentato un esempio lampante dell’incomprensione del ceto politico italiano verso l’immigrazione.
Regolare o clandestina che sia. “La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli” dichiarava uno dei Mattei nazionali, Piantedosi ministro dell’Interno, fra le accuse dell’opposizione e la carezzevole giustificazione dei colleghi dell’Esecutivo. Sharida Raza, questo è il nome dell’atleta pakistana inghiottita dall’italico mar, il pericolo del figlio l’aveva davanti agli occhi fin dal quarantesimo giorno della nascita, quando il piccino era stato colto da un ictus. La traversata sul malandato caicco le serviva ad alimentare una speranza indomita: cercare nel ricco Occidente cure impossibili nell’originario Belucistan. La donna preparava la strada a un’assistenza futura, purtroppo naufragata insieme a lei. Fino ad allora Sharida non era riuscita a ottenerla, sebbene avesse vestito la maglia della nazionale di hockey prato, uno sport sponsorizzato a Islamabad dal potentissimo esercito. Raza era un’atleta a tuttotondo, praticava con ottimi risultati anche il calcio, aveva gareggiato in competizioni internazionali di kung fu e kickboxing. Aveva l’indole della combattente, nient’affatto intimidita dalle traversie del viaggio e delle condizioni estreme della rotta fra Izmir e la spiaggia calabra anticamera della drammatica fine. Che risulta emblematica per come, anche chi poteva vedersi favorita dall’appartenenza all’élite sportiva, non riceveva aiuti per un espatrio sicuro. A Sharida non sono valse né gare, né vittorie nazionali ed estere e neppure il marchio delle Forze Armate perché era segnata sin dalla nascita dall’etnìa di appartenenza, quella hazara, già normalmente in difficoltà nello Stato pakistano e ancor più nell’area di Quetta. Lì il fondamentalismo islamico perseguita lo sciismo degli hazara marchiato a pelle pure su soggetti magari non così osservanti.
Del resto nei Paesi sedicenti laici, ma sfregiati da un confessionalismo che prospera ed esaspera le menti, non mostrare alcuna fede può diventare più pericoloso di seguirne una minoritaria. Per la famiglia Raza tutto ciò era scontato. Loro nella patria dei taliban pagavano lo scotto del proprio dna: essere hazara equivale a essere sciita, dunque miscredente a detta di quelle madrase deobandi, come la tristemente nota Darul Uloom Haqqania che da decenni forgia intolleranza e persecuzione. Eppure quest’etnìa non è così minuta: le statistiche pakistane la danno a più del 20% dell’intera popolazione, a conti fatti 45-50 milioni di cittadini. Però l’esistenza è grama per chi conduce una vita ordinaria, le opportunità lavorative in questa fase di crisi economica generalizzata scarseggiano per tutti, ma per gli hazara di più. Le giovani generazioni pensano che solo la fuga all’estero potrà offrirgli un domani migliore. Dietro la storia di Shahida e la sua decisione di lasciare il Pakistan c’era la ricerca d’una cura per il figlio, ma si nascondevano altre difficoltà. Le confidano alla stampa locale persone amiche rimaste in contatto con lei fino ai giorni che hanno preceduto il viaggio della speranza e poi della tragedia in mare. La campionessa aveva perso il lavoro quando talune specialità sportive erano state vietate nel dipartimento beluco. Anche donne talentuose e determinate come lei possono cadere in un trattamento discriminatorio ha affermato l'attuale ministro dello Sport e della Cultura del Belucistan che pure appartiene alla comunità hazara. In Pakistan il fanatismo religioso sunnita ha avuto un incremento durante la dittatura militare di Zia-ul Haq, poi i conflitti occidentali della cosiddetta “guerra al terrorismo” hanno prodotto un incremento della militanza jihadista, le tendenze persecutorie e la polarizzazione interna sono cresciute. Chi non si fa trascinare nella spirale del fanatismo, chi cerca di emanciparsi con lo studio e il lavoro cerca altri luoghi per trasformare la sopravvivenza in vita. Affrontando quelle partenze incerte, come hanno fatto Sharida e migliaia di connazionali. Dicono: è un rischio che val la pena di correre.
Enrico Campofreda
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