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Sisi lavora alle solite galere

Da settimane siamo abbagliati dalla presenza di Abdel Fattah Al Sisi nei delicati e contraddittori negoziati sulla straziante condizione dei due milioni di gazesi che ogni giorno perdono dieci, cento, mille concittadini massacrati dai missili israeliani e dalla fame. 

E non abbiamo sentore di quello che il presidente-golpista fa a casa sua, pensando, come vedremo, anche ai palestinesi. Stanotte ha fatto sequestrare altri giornalisti e attivisti, processati rapidamente stamani e condannati a due settimane di reclusione da scontare nel carcere ‘Ashara Ramadan’ del Cairo. Chi segue da tempo le vicende egiziane sa cosa vogliano dire quelle due settimane: celle iperaffollate, interrogatori ritmati da bastonature per confessare quel che non si è fatto né pensato. Quindi ritorno davanti ai magistrati per un altro turno di arresti, che si rinnova: quindici giorni, un mese e via andare. Patrick Zaki si è invecchiato di due anni, poi gli ha giovato la laurea bolognese e indirettamente il precedente assassinio di Giulio Regeni che già rendeva imbarazzante la situazione fra Roma e Il Cairo. Imbarazzante ma non conflittuale. Dal 2016 nessun esecutivo italiano ha mai alzato la voce verso le responsabilità politiche del governo del Cairo. Che sono responsabilità di Al Sisi e della sua congrega, militare e laica. Di questo gruppo fa parte un boss che si chiama Ibrahim Al Arjani, ora collocato dal presidente alla guida del ministero dell’Interno. Perché lo definiamo boss? Non tanto perché questo signore è il capo tribale dei Tarabin, il più importante ceppo beduino della penisola del Sinai, antico di tre secoli e noto in tempi recenti per traffici lungo il confine israelo-egiziano di droga, armi, prostituzione, esseri umani.

L’illegalità non coinvolge l’intera comunità ma taluni clan, quello di Arjani si è ben strutturato anche dal punto di vista logistico con aziende edilizie e le immancabili attività turistiche, mettendo il naso pure nei tragitti degli aiuti umanitari con l’antica e sempre valida richiesta di denaro in cambio di “protezione”. Il giornalista egiziano Osama Gawish ha dichiarato su una piattaforma social che Al Arjani non segue solo affari più o meno leciti, ma dall’epoca della repressione statale contro i gruppi jihadisti presenti nel Sinai s’è dato da fare formando un corpo mercenario che continua a servirgli da braccio armato. Da qui la collaborazione col regime s’è intensificata, passando per un rapporto confidenziale con Mahmoud Sisi, ufficiale dell'Intelligence e figlio del presidente. Questa vicinanza ha molto aiutato il business del boss ampliatosi per e con le Forze Armate. Più di recente gli affari dell’imprenditore-ministro si sono incrociati con l’ipotesi di creare “campi profughi” di palestinesi in territorio egiziano. Quelli che Sisi sostiene di non volere ma che poi accetterà perché il suo ruolo di carceriere è molto apprezzato dalla comunità internazionale, e che ha già visto sorgere recinzioni alte cinque metri, l’ennesimo muro destinato ai superstiti palestinesi, un popolo prigioniero ovunque si trovi, venga collocato o deportato. Nessun conflitto d’interessi - figurarsi - fra il ministro che smista e l’imprenditore che guadagna, cioè mister Arjani, anzi probabilmente in base alle sue specialità l’uomo di Sisi potrà offrire garanzie a una delle voci del “piano Mattei” che tanto premono al governo Meloni: il contenimento dell’emigrazione sull’altra sponda del Mediterraneo. 

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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