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Quella strage di Natale, nel 1984

di Luca SOLDI

Era la domenica di quello che può sembrare un anno lontano. Una di quelle giornate che prima di Natale si vivono di corsa, prima di rilassarsi in mezzo ai propri cari.

A quel tempo non esisteva l’Isis, ben altri terrori, bel altre paure affliggevano ed avrebbero afflitto il nostro Paese.

Quella domenica del 23 dicembre 1984, il treno con quel numero, il “904” che resterà per sempre impresso nella storia, lasciò la stazione di Santa Maria Novella. Si avventurò nel tragitto della direttissima, che lo avrebbe dovuto condurre fino a Bologna e poi su al nord. Per molti di quelli che erano a bordo, il viaggio era iniziato da Napoli.

E come ogni vigilia di Natale quei vagoni erano carichi di persone, di famiglie che andavano a ricongiungersi con i loro cari o più semplicemente avrebbero voluto trascorrere le feste in serenità.

Qualche istante avanti che il convoglio lasciasse i marciapiedi della stazione di Fierenze, un signore forse sulla cinquantina, era sceso. Stranamente era salito poco prima sulla nona carrozza con due borsoni e senza chiedere permesso aveva li aveva appoggiati con delicatezza sulla griglia portapacchi. Quei bagagli però non contenevano i suoi vestiti. Non c’erano i regali di Natale. Neppure qualche prodotto tipico da mangiare per il pranzo delle feste, insieme alla famiglia. Quel signore “distinto” aveva lasciato uno strumento di morte destinato ad uccidere bambini e adulti. In quelle borse c’erano ben 16 chilogrammi di esplosivo collegati a un sistema di trasmissione radiocomandato.

Alle 18,35 il treno partì, con il suo carico di vita e sogni, per il suo ultimo viaggio. Il fischio del capostazione Fabio Ottimini, 35 anni, barba lunga, e tanta stanchezza negli occhi, diede il via al Rapido 904 dalla stazione. Superate le stazioni di Prato, Vaiano e Vernio, esattamente alle 19,02, il treno entrò nella Grande Galleria dell’Appennino della «Direttissima» Firenze-Bologna. Quella che gli attentatori si aspettavano come una trappola senza uscita lunga 18 infiniti chilometri. Appena e sei minuti dopo, si sentirono due esplosioni dalla terzultima e la quart’ultima carrozza del convoglio. Una a pochi istanti dall’altra. Qualcuno attivò il freno di emergenza e il treno si blocco quasi subito.

Il convoglio era letteralmente spezzato a metà insieme a tante esistenze che gli si erano affidate. Il fumo, lo spavento avvolse tutti quelli che erano rimasti illesi. Non esistevano ancora i telefoni cellulari e bisognava chiedere aiuto e dare l’allarme. Qualcuno scese. Un viaggiatore ebbe la prontezza e l’intuito di chiamare aiuto dal telefono di emergenza che si trova dentro la galleria appenninica. Il treno era fermo al chilometro 45,889 nel tratto Vernio-San Benedetto Val di Sambro, a circa 8 chilometri dall’ingresso sud e a 10 da quello nord. Avevano proprio calcolato bene il luogo dell’esplosione. Anche simbolicamente. Un passeggero ebbe a dire: “Mi ricordo solo il fuoco che entrava dai finestrini rotti. Non capivamo se avevamo avuto un incidente, se ci eravamo scontrati con un altro treno. Poi dopo un bel po’ il treno riesce a fermarsi e ovviamente nel buio ci siamo catapultati, senza pensare che dall’altro lato potesse arrivare un altro treno. E ci siamo buttati dalle porte sventrate. E lì poi c’era un capotreno, che ci urlava di non scendere e di stare attenti perché sui binari c’erano pezzi di corpi”. Partirono i soccorsi dal lato bolognese e da quello di Vernio.

Il vento che soffiava da nord verso sud, per un certo tempo impedì l’accesso ai soccorritori toscani. Luciano Rescazzi, responsabile della protezione civile all’unione dei comuni della Valle del Bisenzio di Prato, ebbe a ricordare: “Non mi scorderò mai quella sera stavo facendo la doccia e suonò il telefono era il responsabile della Misericordia di San Quirico di Vernio che mi chiedeva di andare immediatamente a Vernio, era successo qualcosa di grave in galleria”.

Le comunicazioni erano difficoltose, la linea era interrotta e quindi fino a quando non venne istituito un ponte radio – a crearlo fu Marcello Fiesoli un radioamatore di Vaiano – non si riuscì a capire bene l’entità del disastro.

E continuando nel racconto, Rescazzi ricorda: “Fui fra i primi ad arrivare, attrezzammo una carrozza speciale per prestare soccorsi, e provammo ad entrare, ma dopo qualche chilometro dovemmo tornare indietro, non eravamo attrezzati c’era buio, l’aria irrespirabile”. Rescazzi dovette così andare nella sede della comunità montana a prendere delle torce e alcune maschere antigas. Riorganizzò una nuova spedizione di cui fece parte anche il medico Saccardi. “Mi chiamarono perché cercavano un medico, così partii da Montepiano – ricorda – e quando arrivai in stazione salii insieme a un altro collega, a un giovane carabiniere e ai vigili del fuoco sul carrello che ci portò al treno. L’ultimo chilometro lo abbiamo fatto a piedi, via via che ci avvicinavamo sembra di essere in guerra: lamiere, pezzi di corpi sparsi, odore di bruciato. Sono sensazioni che non si possono scordare”.

I feriti più gravi erano già stati trasportati fuori, ma qualcuno vagava ancora sperso, dentro la galleria. “Arrivai alla carrozza 9 e vidi una bambola e inorridii”, ebbe a dire un ferroviere di nome Marzoppi che partecipò ai soccorsi.

Lui ha ancora stampato nella memoria di una bamboletta che poi fu raccolta e che rimane fra le immagini simbolo della strage. Dovette lavorare per quasi un giorno all’interno della galleria per aiutare a ripristinare la linea elettrica e a ripulire. “Mi venne assegnato il compito di raccogliere tutti gli oggetti e i resti umani. Raccattai di tutto: dita, braccia, vidi gente raggomitolata e divisa in due dentro la carrozza 9. Tutti erano neri e completamente nudi: la forza dell’ esplosione aveva svestito tutti i passeggeri. Vidi le valige aperte con gli effetti personali sparsi: tutto si era bloccato”.

Nella strage furono stroncate la vite di 17 persone, di cui due bambini, i feriti furono 267. Vale la pena di soffermarsi e ricordarli uno per uno: Giovanbattista Altobelli, anni 51, Anna Maria Brandi 26, Angela Calvanese in De Simone 33, i piccoli Anna e Giovanni De Simone di 9 e 4 anni, Nicola De Simone 40, Susanna Cavalli 22, Lucia Cerrato 66, Pier Francesco Leoni 23, Luisella Matarazzo 25, Carmine Moccia 30, Valeria Moratello 22, Maria Luigia Morini 45, la piccola Federica Taglialatela di 12anni, Abramo Vastarella di 29 e poi altre due persone che morirono successivamente per le gravi ferite, Giocchino Taglialatela di 50 anni e Giovanni Calabrò di 67.

Appare subito chiaro che si trattava di un attentato terroristico. Arrivarono subito anche le prime rivendicazioni di matrice prevalentemente fascista. Il clima che regnava nel Paese era quello che indicava una direzione che da tempo, vedeva coinvolta la destra estrema ed i servizi segreti deviati. Il tutto per ottenere una deriva autoritaria che mirava a bloccare ogni possibilità di alternativa politica. Per togliere la democrazia ad un Paese fragile.

Le stragi, con il loro carico di morte e paura sarebbero state il mezzo per ottenere una dittatura. Ma non solo. In tutto ciò si integrava ed inseriva la strategia della mafia e della camorra. Pronte a fornire supporto logistico e materiale. Ma anche questa volta il pianto e lo sdegno delle forze democratiche, ben rappresentato dalla grande figura del Presidente Pertini, fu unanime. Partirono immediatamente le indagini. A coordinare le indagini fu l’allora pm di Firenze Pierluigi Vigna.

Un anno di indagini serrate, poi ad un certo punto la svolta: nel 1985 vennero arresti in una casa di Rieti, nel corso di un’indagine per traffico di droga il cassiere della mafia palermitana Pippo Calò e Guido Cercola: oltre a un chilo di eroina nel covo vennero ritrovati antenne, armi ed esplosivi. Le perizie fecero emergere che l’esplosivo scoperto nella casa di Rieti aveva la stessa composizione di quello usato nell’attentato di Natale al treno 904. Diventarono così evidenti i collegamenti tra mafia, camorra, eversione neofascista napoletana, banda della Magliana. Ed anche la sempre presente loggia massonica P2 di Licio Gelli. Le indagini fecero venire alla luce uno scenario che univa interessi terroristici, mafiosi ed eversivi. Tutte prove e testimonianze che poi verranno raccolte dal giudice Giovanni Falcone che nel 1985 si trovava ad istituire il maxi processo contro Cosa Nostra.

Seguirono anni, decenni, di inchieste e di processi ed anche un annullamento in Cassazione grazie “all’aiuto” del discusso giudice Corrado Carnevale. Nel 2011 arrivarono le condanne definitive di Calò e Cercola e dopo poco, all’incriminazione da parte della procura di Napoli, grazie alle rivelazioni di alcuni pentiti di camorra, del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Il boss dei boss fu indagato come mandante della strage ma il processo iniziato il 25 novembre 2014 con un’udienza a porte chiuse è terminato, con l’assoluzione, ad aprile di questo 2015: in sostanza per insufficienza di prove.

Concludendo, la strage di Natale – hanno affermato i magistrati – è stato il primo episodio della volontà stragista che proseguirà negli anni Novanta con gli attentati di Firenze, Roma e Milano e che punterà a contrastare l’attività di indagine contro Cosa Nostra. Inserendo così le bombe di mafia nella strategia per destabilizzare lo Stato.

E’ nella seconda udienza del processo a Riina difeso dall’avvocato fiorentino Luca Cianferoni che emerge qualcosa di più. Secondo i periti, esperti in esplosivi, la miscela usata sul 904 è la stessa utilizzata poi nel 1992 nell’attentato in via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta ed hanno trovato anche analogie col materiale usato a Capaci, dove morirono Giovanni Falcone e sua moglie. Non solo, ma anche con le stragi in continente del 1993 a Roma, Milano e via dei Georgofili a Firenze. Un attacco alla democrazia che colpì in maniera “feroce e del tutto indiscriminata inermi cittadini” secondo “una logica squisitamente terroristica”. Sono quegli “interessi convergenti di diversa natura” che hanno “trovato coagulo” con l’attentato del Rapido 904.

Il giudizio dei giudici ricorda che per la strage sono stati condannati il cassiere della mafia, Pippo Calò, i suoi ‘collaboratori’ Guido Cercola e Francesco Di Agostino, e un artificiere tedesco, Friedrich Schaudinn. Ma ricordano anche che per la ‘sola’ detenzione di esplosivo, sono stati condannati l’ex parlamentare del Msi Massimo Abbatangelo e quattro camorristi: Giuseppe Missi, Giulio Pirozzi, Alfonso Galeota e Lucio Luongo.

In un collegamento inquietante che pesa ancora oggi sulla storia del Paese.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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