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Psico-Politica: la politica italiana alle prese con il suo "conflitto generazionale"

E siamo alla metà di ottobre, anno 2012.

L’ultimo capitolo della storia politica italiana parla della mala gestione nelle amministrazioni pubbliche locali; e degli scandali che ne stanno derivando, a pioggia battente ormai e in tutta la penisola, dopo il botto della Regione Lazio. Chi si è salvato cerca di arrivare prima degli altri a cambiare le regole di trasparenza e ridursi i privilegi, imbeccato dal Governo. Ma tutti sanno che è troppo tardi. Messe le toppe, da parte dei tecnici, agli strappi nel tessuto dell’amministrazione statale, ora si scoprono le lacerazioni in quella locale; con buona pace di Weber, che nella pubblica amministrazione aveva individuato lo strumento migliore per la gestione e il mantenimento della Democrazia. Ahi noi! Quanta democrazia c’è in un apparato pubblico formato in gran parte da non eletti (Tecnici compresi, a onor del vero)?

La Prima Repubblica ci sta lasciando una pessima foto ricordo, prima di salutarci al voto di primavera. Non già la seconda, che a dire di molti in fondo non è mai nata, bensì la Prima che, risorta in qualche modo da Mani Pulite, si sta ora dando una fine quasi pirotecnica, ennesima conferma di quanto la realtà possa superare anche la più pessimista delle fantasie.

La classe politica, dopo la sconfitta collettiva che ha determinato la formazione del governo tecnico, si sta ora arrovellando in una sorta di grande seduta di “psicoterapia familiare”. Ma non chiamiamolo scontro generazionale, per favore. Non è solo questo. L’età dei soggetti può essere simbolica, ma non è il punto cruciale, secondo me. E non si tratta neppure soltanto di ideologie da superare, benché anche in questo ci sia del vero. È un modus vivendi e operandi che va sradicato. Va smantellato un impianto di regole scritte e non scritte che ha permesso (permette tutt’ora) l’ascesa sociale per affiliazione e favoritismi, rendendo normali gavette interminabili, ruoli non più discutibili, incarichi e premi economici come merce di scambio per il voto, palesi ineguaglianze dinnanzi alle leggi e alle norme. Rubo dalla pagina di un amico di facebook: “non è proprio fame, è più… voglia di entrare in politica”, che fa il verso a un noto spot pubblicitario ma rende l’idea. L’idea di una politica vista solo come modo per sistemare se stessi e quanti più amici possibile, chi in scienza e coscienza, chi “a sua insaputa”.

Fra i 30 e i 40 anni, sta una generazione cresciuta nel benessere iperbolico degli anni ’80. Con una memorabile canzone da hit parade, Raf ci chiese allora “cosa resterà”… Al di là delle congiunture mondiali e degli effetti della globalizzazione, la nostra débacle nazionale è quel che resta di anni (un ventennio abbondante, fin quasi ad ora) vissuti al di sopra di ogni possibilità. Nell’illusione che ci fosse un sistema perfetto in grado di funzionare in eterno e per inerzia, dietro a cui nascondere le proprie (ir)responsabilità e le proprie (in)coscienze. Questa generazione (e chi ne condivida lo spirito anche se non l’anagrafica) sente ora di dover mettere la testa e la consapevolezza mancate a chi l’ha preceduta. D’altra parte è l’unica che può farlo, sganciandosi da quel passato nelle idee, nei linguaggi, nelle modalità di azione e interazione, rendendo più aperta e più libera la nostra società, disegnando nuove geografie e geometrie in campo internazionale, con uno sguardo che sappia proiettare in un futuro non solo immediato l’immagine di un presente nuovamente capace di evoluzione e di crescita. 

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