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Storie sospese: italiani, migranti, e il bisogno di una comune appartenenza

Noi che siamo nati negli anni Settanta, che eravamo bambini o poco più mentre l’Italia si ubriacava, all’apice del suo effimero benessere, ipotecando il nostro futuro. Siamo figli di un tempo migrante, anche se non ce ne siamo mai andati, se non ci siamo mai innamorati di un altrove. È questo il nostro altrove, la fatica di sentirci radicati nel nostro tempo e nel nostro spazio. La stessa fatica dei tanti arrivati qui da mille altri luoghi per riscriversi una storia; la stessa di quelle seconde generazioni a cui non si vuole riconoscere l’ovvietà, cioè la piena appartenenza a una società che è ormai plurale. Lo è profondamente nella sostanza, sebbene non la si voglia riconoscere nella forma. Noi, i nostri compagni di scuola e di università, gli “Erasmus”, le amicizie, l’amore, un mondo di sfumature, un viaggio nel paradosso, in cui crescere è stato un perdere certezze anziché trovane.

Figli traditi di un occidente sul ciglio del suo baratro. Figli incompleti di questa modernità liquida, che non ha identità precise in cui riconoscersi. Loro, i figli dell’altrove: quanto abbiamo bisogno dei loro occhi per vedere, dei loro pensieri per capire, in questo tempo di spaesamento, di fragilità e contraddizioni. Quanto avremmo bisogno, adesso, di una comune appartenenza. Le loro storie riscritte solo a metà, si somigliano con le storie nostre, anch’esse rimaste sospese.

Il Partito Democratico sta facendo passi importanti per quanto riguarda l’elettorato passivo, ma è solo l’inizio di un cambiamento ormai irrinunciabile e verso il quale si dovrà camminare a passo spedito, con il coraggio mancato in anni passati, per non perdere irrimediabilmente quelli futuri. Pensiamoci, quando andremo a dare il nostro voto, per le primarie di fine dicembre e per le politiche di febbraio, pensiamo al privilegio di tracciare quel segno sulla scheda. Privilegio e responsabilità, come forse mai prima. È il momento di voltare pagina e scrivere una storia nuova.

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