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Perché lo scoop del Guardian sulla sorveglianza dell’Nsa non è uno scoop

L'Nsa americana, con l'appoggio di alcune aziende private, ha controllato e immagazzinato dati su milioni di cittadini americani. Era il 2004, vi raccontiamo cosa è successo dopo e il perché c'è poco da stare allegri.

“C'è una vicenda negli Stati Uniti chiamata causa ‘Nsa-At&t’. A Folsom, in California, Mark Klein, un ex tecnico del gigante delle telecomunicazioni At&t, ha rivelato che la Nsa stava trattenendo tutti i dati che convinceva la At&t a passarle. Prendevano tutto in blocco, anche le chiamate vocali, così ogni volta che ho sollevato la cornetta o mi collegavo a internet a San Francisco nel periodo di cui parlava Mark Klein la Nsa stava captando tutto quanto passasse su suolo americano”

Le parole che avete appena letto non sono state scritte o pronunciate in questi giorni da Edward Snowden, ex agente dell’Nsa e whistleblower che ha rivelato al Guardian lo scoop sul caso Prism, ormai noto con il nome “datagate”. Quello che avete letto è tratto da un libro del 2012, che raccoglie alcune conversazioni tra Julian Assange, volto e anima di Wikileaks, ed alcune personalità della corrente cypherpunk, (Jacob Appelbaum, Andy Muller-Maguhn e Jeremie Zimmermann). Il libro è Cypherpunks: Freedom and the Future of the Internet, in Italia edito da Feltrinelli con l’infelice titolo “Internet è il nemico”. Le conversazioni qui contenute sono state raccolte dal 2010 in poi, ma analizzano e elencano anche fatti precedenti.

Il caso “Nsa-At&t” nasce nel 2004, ma esplode nel 2005, e nel libro è chiamato “il caso più rilevante di sorveglianza di massa nella storia degli Stati Uniti”. L’Nsa è l’agenzia per la sicurezza nazionale americana, e l’At&t è una delle più grandi compagnie telefoniche del mondo, che a maggio di quest’anno poteva contare su una capitalizzazione di circa 200 miliardi di dollari.

Il diritto alla privacy negli Stati Uniti, prima dell’11 settembre, era un diritto piuttosto sentito. Furono proprio due avvocati di Boston, Samuel Warren e Louis Brandeis, a definire il concetto giuridico di “privacy” verso la fine del 1800, pubblicando sulla rivista “Harvard Law Review” un articolo intitolato “The Right to Privacy”.

Lo scopo dei due avvocati - in un periodo storico che vedeva ampliarsi la penetrazione del giornalismo, anche scandalistico, in tutte le fasce della popolazione americana – era quello di estendere il concetto di proprietà intellettuale alla protezione dei pensieri, delle emozioni e delle sensazioni delle persone anche nella loro individualità privata. La tutela della privacy ha raggiunto il suo massimo punto di estensione nel 1978, con il FISA (Foreign Intelligence Surveillance Act), che decretò illegale la sorveglianza di cittadini americani senza un mandato del tribunale.

Come si può immaginare, dopo l’11 settembre 2001, tutto cambiò. L’amministrazione Bush, grazie all’ausilio di due leggi speciali approvate dal congresso, l’Authorization for the Use of Military Force (AUMF) e il Patriot Act, poté allargare la potenza di fuoco della sorveglianza, a cui consistette una relativa perdita di privacy da parte dei cittadini, che però, ancora oggi, sembrano disposti ad accettare il baratto (come dimostra questa ricerca). I confini tra il legale e l’illegale in questo caso sono porosi, e non è ancora ben chiaro quanto queste leggi possano aggirare il Quarto emendamento americano, quello che difende i cittadini dalle perquisizioni irragionevoli.

Come è accaduto in queste settimane con il “datagate”, anche allora un “informatore” contattò il New York Times, per rivelare i programmi di sorveglianza dell’Nsa. Era il 2004, e il giornale, contattando l’amministrazione, decise di aspettare a pubblicare il reportage almeno fino a dopo le elezioni che si sarebbero svolte da lì a poco. Il governo si mosse per un’ingiunzione di limitazione preventiva, il giornale lo venne a sapere e così pubblicò tutto immediatamente. Da quel momento in poi altre persone si misero in contatto con la testata per mettere a disposizione nuovi dettagli sulle azioni di spionaggio interno dell’Nsa. Partirono molte cause, tra cui la più importante rimane quella ricordata come “Hepting vs. At&t”, nata da un altro whistleblower, Mark Klein, che attraverso una deposizione giurata rivelava il peso e la portata della collaborazione dell’azienda con il programma di spionaggio (trovate tutta la documentazione qui).

Klein era un ex impiegato della At&t a San Francisco, e nel suo ruolo di teste nel processo rivelò l’esistenza di una struttura di intercettazioni strategiche gestita in collaborazione tra l’Nsa e l’azienda per cui lavorava. Secondo un altro informatore, questa volta dell’Nsa, William Binney, sul territorio americano c’erano almeno altre 20 strutture del genere, situate nei nodi strategici della rete di telecomunicazione americana.

Secondo i teste la sorveglianza funzionava così: tutto il traffico internet di passaggio negli Usa veniva “stoccato” a tempo indeterminato sui loro server. Questo metodo rendeva impossibile filtrare in anticipo i dati rilevanti e, secondo l’interpretazione legale della legge FISA, non rientrava comunque nel campo “intercettazioni”, almeno fino a che qualcuno non avesse avuto accesso ai dati; solo a quel punto sarebbe servito un mandato del tribunale.

Nel 2008 la legge FISA fu emendata con due articoli, che di fatto regalavano l’immunità retroattiva ai casi che potevano aver violato la legge. Strascichi processuali ce ne sono stati, e alcune novità sono recenti, anche se poco incoraggianti in prospettiva del nuovo “datagate”: l’ACLU (American Civil Liberties Union), che aveva contestato la costituzionalità degli emendamenti FISA del 2008, ha perso la sua battaglia nel febbraio di quest’anno (potete leggere la sentenza qui), mentre l’EFF (Electronic Frontier Foundation) continua a vedersi opposto il “segreto di Stato” alle sue richieste di cessazione e chiarimento dell’attività dell’Nsa (i documenti li trovate qui).

Queste vicende rendono chiare due cose. La prima è che non c’è sostanziale differenza nei comportamenti di Obama e di Bush. Al di là delle buone intenzioni, quando ci si ritrova a dover decidere di argomenti di questo tipo le idee politiche passano in secondo piano: la fame di sicurezza nasce dalla paranoia che il potere produce, così è sempre stato e così sempre sarà. Il problema oggi, semmai, è che ci sono tecnologie in grado di ampliare in modo quasi soprannaturale i poteri dei controllori, tecnologie così intrinsecamente complesse che sono fuori dalla portata conoscitiva del cittadino comune, e che potrebbero sfuggire al controllo anche dei più sinceramente democratici governanti.

La seconda cosa che viene alla luce riguarda invece lo “scoop” su Prism, che poi a ben vedere non è uno scoop, ma un semplice proseguo di una vicenda iniziata ben prima di quest’anno (già nel 2001, prima dell’11 settembre, il Parlamento europeo si era interessato alla questione, come potete vedere qui), a cui però, colpevolmente, l’opinione pubblica fa fatica ad affezionarsi, rendendo meno importante un tema che dovrebbe essere – mai come oggi – al centro dell’attenzione.


Photo credit: quinkit

 

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