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Non fidarsi è meglio. L’addomesticazione dei fatti in un’intervista al sociologo De Rita

Una chicca di come si possono addomesticare i fatti confidando nell’ignoranza o nell’indifferenza di chi legge o ascolta

Su “Repubblica” del 22 ottobre 2009 c’è un articolo che, a mio parere, meglio di ogni altro esempio fa capire come si possa manipolare la realtà a supporto di tesi strumentali e, talora, strampalate.

 

Si tratta di un intervista al sociologo Giuseppe de Rita, fondatore del CENSIS e già presidente del CNEL.

Nell’intervista il “nostro”, con riferimento alle polemiche successive alle esternazioni di Tremonti sul posto fisso, si adopera per dimostrare che la flessibilità e la precarietà sono valori, opportunità, sfide”.

Per dimostrare questa tesi viene richiamata nell’ordine:

· la Festa della Capanna, ricorrenza ebraica che starebbe a testimoniare che “bisogna vivere la vita sapendo che siamo lontani dalla sicurezza

· “una interpretazione talmudica dell’ultimo comandamento, invece di suonare come per noi "non desiderare la roba d’altri" suona "non desiderare la casa". Gli antichi quindi ci insegnano che dobbiamo saper convivere con la precarietà, senza certezze stabili. La precarietà è la molla che ci rende capaci di andare avanti senza restare attaccati. Al dunque, ci dà la forza. 

La circostanza che il noto studioso abbia citato a sostegno della sua tesi l’antica cultura ebraica mi ha incuriosito ed ho fatto una breve ricerca sull’argomento.

La festa del Sukkòth o della “Capanna” rievoca il periodo in cui gli ebrei, dopo essere fuggiti dall’Egitto, dimorarono per quarantanni nel deserto, in capanne. La capanna è sì il simbolo della precarietà della vita ma, soprattutto, della protezione del Signore sui figli di Israele. Infatti, pur così fragile e col suo tetto di fronde, attraverso le quali si vedono le stelle, ha sempre protetto gli ebrei da ogni pericolo. È chiamata anche zemàn simchaténu (festa della nostra gioia), perché è la festa della benedizione del lavoro, della fatica umana e della fede nel Signore. Si festeggia infatti con la gioia di chi è giunto felicemente alla fine della stagione agricola. Infatti, dopo un anno di lavoro e di lotta contro gli elementi della natura, il contadino ha ora i granai, i magazzini, le cantine pieni del suo raccolto. Conclusione, quindi: è felice.

Ho visitato parecchi siti ed ho verificato che l’interpretazione, pressochè unanime, di questa celebrazione religiosa ha poco o nulla a che fare con il fatto che “bisogna vivere la vita sapendo che siamo lontani dalla sicurezza come sostiene l’intellettuale De Rita: la precarietà, di per sé, è tutt’altro che un valore, semmai è una condizione che rivela la futilità e la caducità della vita terrena a confronto della vita eterna, principio se vogliamo discutibile, ma coerente con un impostazione religiosa della vita. E quanto le premesse dell’intervista siano lontane dalle conclusioni lo capiamo anche dagli ulteriori significati di questa ricorrenza, nel momento in cui la tradizione ebraica lega le festa del Sukkoth alla gioia ed alla felicità per l’abbondanza dei raccolti. 

Ma ancora più sorprendenti sono i risultati della seconda verifica che ho fatto, relativamente alla sedicente interpretazione talmudica del decimo comandamento: anche in questo caso la versione pressocchè unanime del decimo comandamento nella tradizione talmudica non è “non desiderare la casa” come il colto De Rita vorrebbe farci credere ma è “non desiderare la casa d’altri”.

Come vedete è stata sufficiente una piccola omissione (“d’altri”) per addomesticare la tradizione religiosa ebraica alla tesi del famoso De Rita.

Ma l’apoteosi dell’empatia l’intervistato la raggiunge quando, in un impeto di democratica comunanza con il popolo, si vanta di avere dei figli precari, dimenticando di dire che quegli stessi figli fanno parte di un nucleo familiare con un reddito che difficilmente sarà inferiore ai 100.000 euro (forse molto, ma molto di più), con buona pace di chi fatica ad arrivare alla fine del mese. 

L’intervista è un capolavoro, una vera chicca che sta a dimostrare come, "aggiustando" ed indirizzando tesi storiche, piuttosto che religiose, confidando nell’ignoranza o nell’indifferenza di chi legge od ascolta, si possano mettere in dubbio realtà conclamate o lo stesso buon senso: se è pur vero che una situazione temporanea di instabilità materiale (non la precarietà a vita, priva di diritti come l’attuale!) può costituire una molla per migliorare è la stabilità materiale che consente all’uomo di elevare i propri sentimenti, la condizione sociale e morale propria e della società che lo circonda.

Il goffo tentativo del De Rita di dimostrare l’indimostrabile, a mio parere, riflette molto bene la condizione sociale e morale dei tempi attuali e resta un esempio evidente di come l’accellerazione della storia dell’uomo abbia prodotto un netto scollamento tra il progresso teconologico/materiale e le sue limitate capacità intellettuali.

P.S.

Per chi avesse un poco di tempo a disposizione vale la pena di leggere l’intervista integrale a Giuseppe De Rita

http://rassegnastampa.mef.gov.it/mefnazionale/View.aspx?ID=2009102214006002-2

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