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Nilo: fonte di vita e discordia per Egitto ed Etiopia

Lo sfruttamento del Nilo è motivo di crescente tensione tra l'Egitto e gli stati alla fonte del fiume, in particolare l'Etiopia. Questi ultimi, e l'Etiopia in particolare, ne reclamano un utilizzo maggiore, ma Il Cairo e Khartoum si appellano ad un trattato del '59 che garantisce loro un diritto quasi esclusivo sulle acque del fiume. Ogni tentativo di accordo è andato a vuoto. E il progetto di dighe annunciato dall'Etiopia potrebbe chiudere i rubinetti per gli Stati a valle.

Se per millenni il flusso rigoglioso delle sue acque ha donato ricchezza e prosperità alle terre che bagnava, oggi, il Nilo è lo scenario di un duro scontro che oppone l´Egitto agli altri paesi che ne condividono la portata. Rivendicandone uno sfruttamento sempre maggiore.

Questo perché il regime dei diritti sulle risorse idriche è ancora regolato da una convenzione stipulata dalla Gran Bretagna (allora potenza coloniale della regione) nel 1959 e mai aggiornata, che assegna il 55% delle acque all'Egitto e il 22% al Sudan. Lasciando quel che avanza a Burundi, Ruanda, Tanzania, Uganda, Congo, Kenya ed Etiopia.

Conclusa l'era del colonialismo da quasi mezzo secolo, tali stati sono ancora ad un accordo che qualcun altro ha concluso per loro, e che nelle sue conseguenze pratiche impedisce loro di costruire dighe e centrali idroelettriche, alimentare terreni agricoli e dare vita ad un processo di sviluppo che non riesce a decollare a causa della scarsità di acqua disponibile.

Il 14 maggio 2010, ad Entebbe, in Uganda, il paese ospitante, la Tanzania, il Ruanda e in seguito il Kenya hanno firmato il protocollo d’intesa Cooperative Framework agreement, che vincola i Paesi aderenti a formare una nuova Commissione per gestire lo sfruttamento idrico del Nilo e che resterà aperto alle adesioni per un anno.

Già un mese prima si era tenuto un altro incontro a Sharm El Sheik, in Egitto, conclusosi con un "nulla di fatto". Sudan ed Egitto avevano proposto di istituire una commissione per i dieci paesi del bacino del fiume (i sette paesi a monte del fiume menzionati prima, più l’Egitto e il Sudan, assieme all’Eritrea, osservatore nell’Nbi), idea bocciata dai paesi a monte.

In base all'accordo di Entebbe, la quota delle acque del bacino del Nilo di ciascuno Stato dipenderà da variabili quali la popolazione, contributo al flusso del fiume, il clima, le esigenze sociali ed economiche, e, soprattutto, gli usi attuali e potenziali delle acque. All'accordo ha aderito anche il Burundi, lo scorso marzo. Si attende anche l'ingresso del Sud Sudan, se e quando le attuali tensioni con Khartoum saranno pacificate.

Un buon risultato, senza dubbio. Se non fosse che Egitto e Sudan, ossia i principali consumatori delle acque del Nilo, hanno boicottato l'incontro, fermi sulle proprie posizioni. E quale futuro potrà avere un accordo concluso senza gli attori maggiormente interessati?

La riunione del Nbi in programma il 29 giugno 2010 ad Addis Abeba, cominciata sotto ottimi auspici già contenuti nel titolo ("Lavoriamo tutti assieme per un futuro migliore"), è finita, invece, in un parapiglia dove sono fioccate le accuse e si sono sfiorati gli insulti, con i Ministri delle Risorse idriche di Sudan e di Egitto che hanno risposto per le rime al loro collega etiopico.

Oggetto del contendere è l'art. 14B del Cfa, che sancisce il principio inviolabile della sicurezza idrica di tutti i paesi del bacino del Nilo. Benché non modifichi il regime sancito dai precedenti trattati, la disposizione apre la strada ad una possibile revisione delle quote di utilizzo del fiume tra gli Stati rivieraschi. Una prospettiva che l'Egitto ha cercato in tutti i modi di scongiurare.

Tuttavia, basterebbe già l'art. 4 dello stesso trattato, secondo il quale è necessario fare delle acque un uso “equo e ragionevole, tenendo in considerazione l’interesse di tutti i paesi interessati”, a suggerire una possibile revisione delle quote in futuro.

Ad oggi il Cfa è stato firmato da sei Paesi, numero minimo affinché il trattato possa entrare in vigore. Contemporaneamente, dovrà essere costituita la Commissione del bacino del Nilo, la quale prenderebbe il posto della Nbi, per affrontare il tema della sicurezza idrica dei Paesi litoranei.

Il punto più controverso della vicenda resta, comunque, il rapporto tra i vecchi trattati e il Cfa. Se è vero che Egitto e Sudan non hanno partecipato al secondo, è anche vero che Etiopia, Burundi, Ruanda e Congo non sono in alcun modo vincolati ai primi. A norma del diritto internazionale, gli Stati sorti all’indomani della decolonizzazione non partecipano agli accordi conclusi dai colonizzatori. Una parziale eccezione è rappresentata dai trattati cd. “localizzabili”, ossia riferiti all’uso di determinate porzioni di territorio, qual è quello del 1929. Ma Kenya, Tanzania e Uganda, una volta acquisita l'indipendenza, hanno dichiarato di non sentirsi legati ad esso.

Secondo una leggenda etiope la dea Iside, prima regina d'Egitto, sarebbe giunta nella Terra dei Faraoni partendo proprio dall'Etiopia. Un'epopea che il governo di Addis Abeba non manca mai di rimarcare nei suoi rapporti con Il Cairo, quando l'oggetto del contendere è appunto lo sfruttamento del Nilo. Già nel XIII e nel XV secolo gli imperatori etiopi minacciarono di limitare il flusso verso l'Egitto.

Considerando che l’85% delle acque del fiume proviene dal Nilo Azzurro, che nasce sull'altopiano etiopico, è evidente come lo Stato del corno d’Africa giochi un ruolo centrale nelle vicenda. Un trattato del 1902, siglato tra Londra e Addis Abeba, relativo alla definizione dei confini tra Etiopia e Sudan, tra le altre cose imponeva al governo etiope di non realizzare alcuna opera che arrestasse il corso del fiume senza il preventivo assenso britannico. Anche qui, siamo di fronte ad un accordo firmato da altri protagonisti in altri tempi. Un accordo a cui l'Etiopia non si sente vincolata.

Per Addis Abeba la questione è di cruciale importanza. Poco sviluppato, affetto da carestie e dilaniato da conflitti interni (per la secessione dell'Ogaden) ed eterni (quello con l'Eritrea, congelato, e quello in Somalia, sempre vivo) con accesso limitato alle risorse, l’Etiopia ha un crescente bisogno di acqua. Attualmente il paese fruisce dell'1% di tutta l'acqua trasportata dal fiume, che, agli occhi di Addis Abeba, sarebbe la causa principale del ritardato sviluppo del paese.

Il Primo Ministro Meles Zenawi, al potere nel Paese da vent'anni , ha fondato buona parte della sua propaganda su un ambizioso progetto di costruzione di dighe (36 in tutto), che permetterebbe di irrigare 2,7 milioni di ettari tuttora incolti e di alimentare centrali elettriche nuove di zecca. E di soddisfare i bisogni di circa 15-20 milioni di persone (il 30-40% della popolazione).
I progetti annunciati da Addis Abeba sono realizzati (e realizzabili) con il fondamentale contributo di investimenti cinesi, divenuti sempre più consistenti. Nel 2009, nel solo mese di settembre, Pechino ha stanziato 900 milioni di euro per incentivare lo sviluppo dell'energia idroelettrica. A ciò va aggiunto un sostanzioso prestito che il governo etiope ha ricevuto dalla Banca Europea per gli Investimenti. Progetti che nei prossimi anni trasformeranno l'Etiopia in una potenza esportatrice di energia, soprattutto verso i paesi confinanti. E che aumentano il peso politico di Pechino nella contesa.

A fine 2009 sono stati inaugurati i lavori per la diga Tana Beles, un progetto che prevede di prelevare circa 7,5 miliardi di m3 dal lago Tana per scopi agricoli ed idroelettrici. Il Nilo Azzurro, emissario del lago, ne sarebbe, quindi, coinvolto. Prospettiva che ha allarmato i piani alti del Cairo, preoccupati che l'Etiopia possa ostruire o deviare il corso dell'affluente. Ma le esigenze di crescita di Addis Abeba non possono più aspettare.

La partita tra il Cairo e Addis Abeba, iniziata da tempo, al momento si giocherebbe soprattutto in campo neutro. In Somalia, dove etiopi ed egiziani sembrano schierati su fronti contrapposti. Almeno è ciò che si ripete negli ambienti della capitale etiope, dove molti accusano, senza mezzi termini, l'Egitto di sostenere i militanti islamici.

Il recente cambio di regime in Egitto potrebbe capovolgere le sorti (parziali) del confronto. Ora è l'Etiopia a condurre il gioco, forte degli investimenti cinesi da un lato, e della debolezza interna dei rivali dall'altro. In attesa che siano altre debolezze (Ogaden, Eritrea, Somalia) a riequilibrare temporaneamente la partita, come è sempre stato finora.

Una soluzione però, se c'è, è ancora lontana dal venire.

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