Muore Gülen l’incubo di Erdoğan
Il tempo fa il suo percorso e si porta via il predicatore e magnate Fethullah Gülen, l’alleato e poi acerrimo nemico del sultano Recep Tayyip Erdoğan.
Lo liquida magari in anticipo, Gülen aveva ottantatré anni, ma l’uomo era malato già da quando, venticinque anni or sono, si autoesiliò in Pennsylvania. O almeno questo faceva credere. Eppure fu proprio in quella fase che, nonostante i molti chilometri di distanza, la prossimità fra i due personaggi vide luce e divenne stretta. Erdoğan aveva da poco fondato il Partito della Giustizia e Sviluppo (Akp), dopo aver scontato alcuni mesi di reclusione per il suo islamismo politico spinto, sebbene quella condanna fosse ideologica. Mossa dal kemalismo presente in seno alla magistratura che non sopportava i versi del poeta Ziya Gökalp, citati dall’allora sindaco di Istanbul in un comizio: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli che pregano i nostri soldati”. I due si avvicinarono perché l’obiettivo di scardinare dall’interno il sistema creato da Kemal Atatürk era comune. Gülen ci aveva lavorato sin da giovane, dopo avere per anni studiato il Corano per induzione paterna. Passò di moschea in moschea da Edirne a Izmir e come suo padre divenne un predicatore. Frequentando case studentesche e dormitori comprese l’importanza della triade: istruzione, predicazione, organizzazione e da lì iniziò a riprodurre questi servizi per la struttura denominata appunto Hizmet, che in turco assume quel significato. Erano gli anni Sessanta. Il Paese anatolico, soggiogato da uno sfrenato nazionalismo, passava da un golpe militare all’altro, la tattica dell’Hizmet gülenista si basava su crearsi consenso e affiliazioni, transitando dalla scuola, nei ruoli d’insegnanti e studenti, all’apparato amministrativo statale. Un entrismo più arduo era quello fra le Forze Armate, cuore del laicismo kemalista, ma gradualmente anche lì la Confraternita scavava le sue nicchie e s’insediava. Quindi i media. Moschee, bollettini e poi giornali e radio e televisioni si trasformavano se non in un impero in apparato ben strutturato, che comunque produceva utili da reinvestire in ulteriori strutture. Gülen non faceva direttamente politica, ma poteva influenzarla. Erdoğan dopo un’adolescenza trascorsa sul rettangolo di gioco del Kasımpaşa Spor Kulübü, nel quartiere istanbuliota d’origine, non pensava che a quella.
I due sembravano fatti l’uno per l’altro per conquistare la Turchia. E fra una predica e un comizio, unione fu. Ma come in ogni matrimonio d’amore e d’affari il tempo è stato galantuomo e ribaldo. Tutto ciò che filava liscio nel primo quindicennio, con l’Akp erdoğaniano ben saldo al potere e con le “infiltrazioni” nelle casematte d’un kemalismo confuso e smarrito presente fra militari e giudici, poi iniziò a scricchiolare. Il momento del crac seguì la caduta di popolarità di Erdoğan nella metropoli sul Bosforo con le contestazioni di Gezi Park. Quel movimento giovanile, laico, sinistorso, alternativo, con l’occhio rivolto ai diritti difendeva un polmone verde che l’amministrazione, e direttamente il governo centrale, volevano cementificare. Morti, arresti e repressione tagliarono il centro storico di Istanbul per mesi Subito dopo l’apparente calma, taluni giornali (Today’s Zaman di proprietà gülenista) e alcuni magistrati avviarono indagini su presunti illeciti e corruzioni che dai deputati del partito di governo arrivavano fin dentro casa del Primo ministro con l’accusa di riciclaggio per il figlio Bilal. Indagini rimbalzate sino in Italia dove, nel 2015, Erdoğan junior s’era ritirato per motivi di studio. Così diceva. Poi tutto si sgonfiò e venne archiviato. Per compiacere l’allora premier turco? Non si sa. Intanto il legame fra l’imam, che non si muoveva dal rifugio statunitense, e un sempre più solfureo sultano erano saltati. Anzi iniziava una resa dei conti coi cosiddetti güleniçi, gli emissari dell’imam sul territorio anatolico. Fino all’episodio del 15 luglio 2016, il tentativo di golpe, sventato in diretta telefonica e poi televisiva dal presidente turco, forte d’una popolarità carismatica che portò in strada decine di migliaia di suoi fedelissimi che s’opponevano a mani nude a un goffo tentativo di presa del potere da parte di alcuni reparti dell’esercito. Il colpo fallì con l’intervento di militari lealisti. Il capro espiatorio, presunto o reale, fu manco a dirlo Fethullah Gülen, contro cui furono improntate anche richieste di estradizione cadute nel vuoto. Per chi fra i suoi adepti risiedeva in Turchia la vendetta risultò tremenda. Oltre ai due anni di Stato d’emergenza, quasi tremila militari vennero arrestati, altrettanto accadde a duemila ottocento giudici, e poi insegnanti, impiegati a decine di migliaia furono licenziati o pensionati, fossero aderenti alla Confraternita Hizmet o solo sospettati. Se ne sono calcolati circa centocinquantamila. Gülen sotterra con sé un bel po’ di misteri, ma conta di rivedersi faccia a faccia col suo ex sodale. Ad Allah piacendo.
Enrico Campofreda
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