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Morale, ecologia, animalismo

Un gruppo di animalisti sta organizzando una contestazione contro il circo da poco stabilitosi nella mia città. Approfitto dell’occasione per esprimere qualche considerazione su un tema che considero fondamentale, ma che purtroppo ho raramente occasione di discutere: quello del rapporto tra l’Uomo e il resto della Natura.

Per gettare le basi del mio discorso credo che sia innanzitutto necessario sottolineare che in realtà non condivido minimamente la dicotomia che molti considerano ovvia – e molti altri accettano senza riflettervi minimamente – tra Uomo e Natura: da quando l’Uomo è stato capace di pensare ha sempre teorizzato una sorta di piramide al cui culmine si è sistematicamente posto. E benché attraverso i secoli si sia sempre aggiornata, giustificando la sua esistenza sulla base dello “zeitgeist” corrente, essa è sistematicamente incapace di reggere a un esame razionale. Personalmente credo che l’Uomo e la Natura siano tutt’uno, e che ogni tentativo di stabilire una distinzione – o, peggio, una gerarchizzazione – tra queste realtà sia assolutamente ingiustificabile.

Le grandi teorie della separazione tra Uomo e Natura (quantomeno, le teorie che mi vengono in mente nel momento in cui scrivo) sono due.

La prima risale ai greci (e in particolare non si può non citare Aristotele), è rimasta essenzialmente immutata fino ad oggi e consiste nell’affermare che l’Uomo sarebbe un’entità separata dalla Natura (quando non espressamente superiore ad essa) in virtù della Ragione, caratteristica propria dell’Uomo e di nessun altro essere vivente.

Le critiche che si possono muovere a questa concezione sono almeno due.

Prima di tutto, stabilire una gerarchizzazione è un’operazione squisitamente razionale, e assumere la Ragione stessa come parametro della gerarchia rappresenta palesemente una scorrettezza logica: infatti, non solo si tenta di basare le gerarchie su un criterio del tutto arbitrario (perché non utilizzare, invece, la forza fisica, oppure la sensibilità, o l’empatia?), ma addirittura si utilizza la Ragione, la quale permette l’esistenza stessa della categorizzazione in quanto processo cognitivo, come criterio dei rapporti di subordinazione tra le categorie. Semplificando, si potrebbe immaginare quanto sarebbe assurdo – e quanto ci indigneremmo – se una ipotetica forma di vita extraterrestre decidesse di soggiogarci perché, in un procedimento mentale a noi del tutto alieno, avesse deciso che secondo i criteri che rendono possibile quello stesso procedimento mentale noi meritiamo di essere soggiogati.

Secondariamente, per avvicinarci a una dimensione più pratica potremmo smettere di definire la Ragione nel senso kantiano del termine e cominciare a considerarla più semplicemente come la capacità di stabilire nessi logici (quella “Intelligenza” che attualmente amiamo tanto misurare con appositi test). Un cane non è intelligente quanto un uomo, si dice, quindi il cane è inferiore all’uomo. Ma un ragionamento del genere porterebbe a due conseguenze insensate e inaccettabili: in primo luogo, ciò implicherebbe che anche un uomo poco intelligente avrebbe una “dignità”, un “valore intrinseco” minore rispetto a quello di un uomo molto intelligente. Benché alcuni potrebbero essere d’accordo con una tale affermazione, il fatto che (quasi) nessuno la difenda ad alta voce dimostra efficacemente come, in fondo, chiunque si rende conto della sua scorrettezza (o quantomeno della sua inaccettabilità morale). Un’altra conseguenza dell’equazione “intelligenza = valore intrinseco” sarebbe quella – più estrema, lo riconosco, ma pur sempre logicamente valida – che alcuni essere umani (quali per esempio i ritardati, e più in generale le persone affette problemi mentali che precludano loro l’utilizzo dell’ “intelligenza” come noi generalmente la consideriamo) andrebbero trattati alla stregua di animali: ciò non è vero, ed è evidente come – quantomeno nelle società “moderne” – queste persone vengono aiutate e seguite, e non necessariamente dai propri familiari. Questo dimostra, almeno in parte, che è qualcos’altro a spingere la società affinché continui a conferire dignità a queste persone: la pura e semplice “intelligenza” non sembra rappresentare un fattore discriminante in questo senso.

Cercherò ora di discutere rapidamente la seconda teoria, sulla quale mi soffermerò molto meno.

Secondo alcuni l’Uomo sarebbe un essere superiore perché “creato a immagine e somiglianza di Dio”, e la sua dominazione sul “creato” sarebbe giustificata dalla parola e dal comandamenti dell’ “Altissimo”.

Benché non esistano particolari confutazioni logiche per rigettare una tesi che trae fondamento dalla pura e semplice fede, andrebbero almeno considerati due aspetti di questa visione.

Come prima cosa, va sottolineato che in molti testi sacri sono presenti insegnamenti e precetti, quali per esempio la sottomissione della donna all’uomo, che l’Uomo moderno sta progressivamente rigettando come ingiustificati. Mi piacerebbe poter sognare di un processo lineare nel quale, dopo l’emancipazione della donna dai dettami religiosi, si raggiunga anche quella di tutti gli esseri viventi. Ma, bisogna riconoscerlo, finché le schiere dei credenti (tra i quali ho la fortuna di non annoverarmi) accetteranno alcuni passi dei loro testi sacri rigettandone altri, e il tutto solo in funzione della direzione del vento, saremo tutti condannati a vivere nell’ipocrisia.

Un’altra considerazione che andrebbe fatta riguarda, più semplicemente, l’affidabilità dei testi sacri quando si parla di “categorie”. Per ovvie ragioni, (quasi) tutti questi testi sanciscono la superiorità dell’Uomo rispetto agli altri esseri viventi. Ma nel frattempo, (quasi) tutti quegli stessi testi decretano anche la superiorità dei loro fedeli nei confronti dei fedeli delle altre religioni. Ora, o ammettiamo che i gradoni della Grande Piramide cominciano a diventare un po’ troppi, e decisamente troppo confusi (a chi diamo retta, ai rabbini, ai preti, agli imam, o a chi altro?) oppure cominciamo a prendere tutto questo discorso della subordinazione con le dovute cautele. E dovremmo farlo sia per quanto riguarda i rapporti tra uomini, sia per quanto riguarda i rapporti tra Uomo e Natura.

Non pretendo così di avere estinto del tutto le argomentazioni di chi vorrebbe fondare la supremazia dell’Uomo sulla Natura, ma spero di aver fornito almeno qualche spunto di riflessione o, quantomeno, di aver chiarito i motivi che mi fanno dubitare che una simile distinzione possa essere ragionevolmente giustificabile.

Cercherò ora di entrare più nello specifico, per valutare se il cosiddetto “animalismo” sia semplice fanatismo o, al contrario, risponda a una logica legittima .

Credo che le opinioni riguardo il trattamento degli animali derivino – come d’altra parte tutte le opinioni di carattere morale – dai sentimenti, ovvero dalla capacità di sentire, di attribuire ai diversi aspetti della realtà una valenza positiva o negativa.

L’attribuzione di un valore a un atto deriva direttamente dalla sensazione di desiderabilità o indesiderabilità dell’atto stesso: tendiamo a lodare un atto e ad attribuirgli un valore positivo se ci rendiamo conto che desidereremmo provarlo sulla nostra pelle, e il contrario è vero per ciò che non vorremmo che ci fosse fatto. Nel momento in cui ci ritroviamo a dover lodare o biasimare le azioni andando al di là della loro semplice desiderabilità, ovvero giustificandole o condannandole adducendo argomentazioni terze, allora dovremmo cominciare a sospettare che stiamo imboccando la strada sbagliata.

Ma tant’è che ognuno di noi tende a non rendersi conto di questo, e sovente viviamo un’intera vita accettando come assodati tutta una serie di norme, principi, giudizi che ci vengono tramandati, inculcati, imposti dall’ambiente in cui viviamo, e che noi stessi spesso contribuiamo a rinforzare. L’esistenza di questi “codici morali” è generalmente utile in quanto essi rappresentano un insieme di regole non scritte condivise dai membri di una comunità, e permettono la creazione di un patrimonio di intesa e comunicazione comune. La conseguenza naturale di ciò è che, solitamente, siamo portati a tracciare una distinzione netta tra le persone che condividono tale “codice morale” e quelle che non lo condividono, dove chi rientra nella prima categoria gode del riconoscimento di soggetto morale, mentre chi rientra nella seconda categoria si vede spogliato di ogni dignità individuale, e di ogni diritto. Questo è vero a diversi livelli. Pensiamo per esempio alla famiglia: solitamente l’Uomo attribuisce ai membri della sua famiglia un’importanza maggiore rispetto a chiunque altro, proprio perché condivide con essi un “codice morale” strettamente simile, un “codice morale” che accomuna e quindi valorizza i singoli individui. Su un livello superiore si pone – altro esempio – la città: le rivalità tra abitanti di città diverse si basa proprio sulla percezione di una differenza di “codice morale”, dove il sentimento di appartenenza alle rispettive città è essenzialmente la percezione di condividere un patrimonio comune con i propri vicini. A livello nazionale si chiamerà nazionalismo, a livello etnico si chiamerà razzismo, e così via. Il “codice morale” ci porta per sua stessa natura a suddividere la realtà in due: noi e loro.

La Storia ci ha dimostrato come questa suddivisione sia inevitabilmente portatrice di conflitto e sofferenza: dalla guerra tra clan alla guerra tra nazioni, passando per la guerra tra città-stato. Il rifiuto di riconoscere a ogni individuo la stessa dignità, lo stesso “valore intrinseco” – conseguenza diretta della limitatezza spaziale e concettuale dei “codici morali” – non porta nulla se non una reciproca incapacità di rispettare e accettare l’esistenza dell’altro.

Ne deriva che il miglior “codice morale” – ovvero il “codice morale” che minimizza il conflitto – è quello che tenta di abbracciare il maggiori numero di individui possibile: ed è esattamente in questa direzione che si muove la Storia. Il nazionalismo, per quanto becero, è concettualmente meno conflittuale del provincialismo, che a sua volta è concettualmente meno conflittuale del sistema dei clan. Ma il migliore in assoluto dei codici morali sarebbe quello che, pur senza tentare di appiattire gli usi e i costumi, riuscisse a comprendere tutta l’umanità, attribuendo a ogni singola persona una dignità morale riconosciuta.

Quello che mi sconcerta, però, è che moltissime persone, pur rendendosi pienamente conto dell’assurdità di concezioni come “nazionalismo”, “provincialismo”, “razzismo”, non riescono a capire che il prolungamento naturale dell’anti-nazionalismo, dell’anti-provincialismo, dell’anti-razzismo, è proprio l’animalismo. È necessario accettare il fatto che, come ci stiamo lentamente rendendo conto che non è possibile escludere dalla dignità morale intere porzioni dell’umanità, così non possiamo farlo con gli animali, con le piante e con ogni essere vivente.

E non possiamo farlo anche perché il riconoscimento di una dignità morale rientra nella categoria di quei fatti che nessuno si sognerebbe di definire indesiderabili, e quindi, se non si possono definire “buoni” in termini assoluti, possiamo quantomeno attribuirvi una valenza generalmente positiva.

Credo che un altro concetto che andrebbe ribadito quando si parla del rapporto tra Uomo e Natura sia quello della “libertà” che, a mio parere, proprio in virtù del relativismo che contraddistingue la realtà, dovrebbe essere il fondamento dell’agire morale.

L’idea generale è semplice: nel momento in cui si opera una limitazione della libertà di un essere vivente, quella limitazione deve essere giustificata e posta sotto un attentissimo esame da parte di tutte le parti in causa. L’onere della prova spetta sempre a chi vuole limitare la libertà, non a chi vuole mantenerla intatta.

Se consideriamo l’agire dell’Uomo nei confronti della Natura, e in particolare degli animali, è più che evidente come la limitazione della libertà di questi ultimi (fino all’estremo dell’assassinio, che è la privazione definitiva di ogni possibile libertà) è sempre fine a sé stessa, mai giustificata, né giustificabile.

E se giustificare il sommo furto della libertà in nome della propria sussistenza può rappresentare un caso limite, lo stesso non si può ragionevolmente dire riguardo alla privazione della libertà per i fini dichiarati dagli zoo, dai circhi o dai produttori di pellicce.

Limitare la libertà altrui è il più grande crimine che si possa commettere, perché significa estinguere la scintilla essenziale della vita. Il giorno in cui riusciremo a capire che ogni animale è un soggetto morale tanto quanto lo è qualunque essere umano, allora realizzeremo che sottrarre la libertà a un animale è come ridurre un uomo in schiavitù.

In primis, l’Uomo non è superiore alla Natura; in secondo luogo, l’Uomo dovrebbe comunque ampliare il proprio codice morale affinché esso possa abbracciare l’intero campo dell’esistenza; terzo, l’attribuzione e il rispetto di una dignità morale per ogni essere vivente è da considerarsi un’azione generalmente buona; e per finire, la limitazione della libertà deve sempre superare l’onere della prova.

Non pretendo di aver espresso qualche pensiero nuovo, tutt’altro: direi piuttosto che è triste dover ripetere continuamente gli stessi – lampanti – concetti di fronte a una maggioranza di persone che, benché spesso sensibilissime ai diritti delle persone, non si rendono conto che tra questi diritti e i diritti di ogni altro essere vivente non c’è alcuna reale differenza.

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