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Midterm USA: a rischio la maggioranza Dem al Congresso?

Alle elezioni di metà mandato il partito del presidente normalmente perde. Sarà così anche a novembre 2022?

di Lorenzo Ruffino

 

A novembre negli Stati Uniti si voterà per le elezioni di metà mandato, nelle quali verrà rinnovato un terzo del Senato e tutta la Camera dei Rappresentanti. Queste elezioni decideranno quindi se il presidente Joe Biden potrà continuare a governare con una maggioranza Dem in entrambi i rami del Congresso oppure no.

Attualmente i Democratici hanno 50 seggi su 100 al Senato e 221 seggi su 435 alla Camera. La maggioranza è quindi già oggi molto debole, in particolar modo al Senato dove per la maggior parte delle leggi sono necessari 60 voti e non è sufficiente la maggioranza assoluta.

Cosa dicono i sondaggi

Per l’elezione della Camera dei Rappresentanti il territorio USA è diviso in 435 collegi uninominali, mentre al Senato ogni Stato ha due senatori che vengono eletti da tutta la popolazione di quello Stato.

Attualmente, nella media dei sondaggi nazionali elaborata da FiveThirtyEight, i Repubblicani hanno il 45,5 per cento dei consensi, mentre i Democratici sono fermi al 42,9 per cento – con il Partito Repubblicano che è sopra i Dem da novembre 2021. Non tutti i sondaggi a livello nazionale vedono il GOP sopra i Dem, ma il sistema elettorale favorisce intrinsecamente il Partito Repubblicano: per esempio, nel 2020 il Partito Democratico ha avuto 3 punti di vantaggio su base nazionale, ma ha ottenuto solo 4 seggi in più di quelli necessari per la maggioranza alla Camera; nel 2018 ha invece vinto di 8,5 punti, ma ha ottenuto solo 17 seggi in più della soglia di maggioranza sempre della Camera. 

Per quanto riguarda il Senato bisogna vedere gli Stati che andranno al voto: non si rinnovano infatti tutti e 100 i seggi, ma solo 35. I Democratici per mantenere la maggioranza non possono perdere nessun seggio: si trovano a difendere un seggio in Arizona e Georgia, due Stati che votavano a destra fino al 2020 e ora considerati toss-up, e in Nevada, uno Stato che sta migrando verso i Dem ma ora considerato toss-up. Allo stesso tempo i Repubblicani devono difendere la Pennsylvania e il Wisconsin, due Stati che stanno andando a destra ma che ora sono considerati ancora in bilico. I Repubblicani partono sicuramente favoriti, ma c’è la possibilità che i Dem riescano a mantenere l’attuale maggioranza al Senato.

Cosa dice la storia

Se i sondaggi non sono positivi, la storia è anche peggio. Il partito del presidente va sempre male alle elezioni di metà mandato anche se solo due anni prima è stato molto votato. È un argomento che viene studiato da decenni dagli scienziati politici americani con diverse teorie, come quella che vede una minore affluenza dei sostenitori del presidente e altre che ritengono che l’opinione pubblica voglia punire il presidente in carica.

Confrontando i risultati delle elezioni di metà mandato rispetto alle presidenziali di due anni prima, si vede come in media dal secondo dopoguerra al 2018 il partito del presidente abbia perso in media tra i 17 e i 19 seggi alla Camera. A volte il calo di seggi è molto importante: furono 54 nel 1994 e 63 nel 2010. Ci sono state solo due eccezioni: nel 1998 (quando i Dem guadagnarono cinque seggi) e il 2002 (quando i Repubblicani guadagnarono otto seggi, ma questo è un caso molto a sé dovuto al fatto che, dopo l’11 settembre 2001, la popolarità del presidente Bush era a un livello estremamente alto). 

Se si guarda il Senato, invece, si vede che in media il partito del presidente ha perso seggi in 13 occasioni su 19, ma anche qui ci sono delle eccezioni dovute in gran parte al fatto che andavano al voto Stati favorevoli al partito del presidente (come nel 2018 per il Partito Repubblicano).

 

Perché il partito del presidente perde

Non esiste una spiegazione univoca, ma ci sono due fattori chiave: l’affluenza alle urne e il “thermostatic model”.

Per quanto riguarda l’affluenza, la spiegazione si concentra sull’idea che gli elettori del partito del presidente ritengano meno importante andare al voto in quanto la posta in gioco è più bassa: essendo un voto che riguarda il Congresso, non c’è la prospettiva di una sconfitta totale e quindi si mobilitano di meno.

La seconda spiegazione, invece, enfatizza la tendenza dell’opinione pubblica a muoversi contro il presidente. Questa teoria si basa sull’idea che l’opinione pubblica funzioni come un “termostato” che si attiva quando fa troppo freddo o troppo caldo, con gli elettori che si muovono per bilanciare la temperatura. Gli elettori potrebbero concludere che le leggi siano troppo conservatrici sotto un presidente Repubblicano ed eleggere un nuovo presidente Democratico, per poi decidere rapidamente che la situazione politica sia diventata troppo liberal e tornare indietro verso i Repubblicani a metà mandato (e viceversa).

La prima teoria spiega cos’è successo con le elezioni di metà mandato del 2014, mentre la seconda quando accaduto nel 2018: otto anni fa i Democratici non andarono al voto, mentre quattro anni fa gli indipendenti, spaventati da Trump, votarono per i Democratici. 

In conclusione, una vittoria Dem – in particolar modo alla Camera – appare a oggi molto improbabile. Mancano però ancora diversi mesi e la campagna elettorale potrebbe cambiare le carte in tavola.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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