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Medio Oriente: c’è perfino chi usa la parola "dialogo"

Una buona notizia arriva, una volta tanto, dalla Palestina; da quei territori che gli uni chiamano “occupati” e gli altri “contesi”.

Nel villaggio di Budrus, vicino Ramallah, una pattuglia israeliana compie un’azione di controllo. Niente di particolarmente duro né pericoloso. Compiuta l’operazione, pochi minuti in tutto, la pattuglia se ne va. Ma incredibilmente si dimentica lì un soldato ritardatario. Il quale soldato, piuttosto impaurito, non trova di meglio da fare che rivolgersi a due anziani del villaggio che se lo prendono sotto braccio e, a scanso di guai, lo accompagnano fino alla periferia del paesino dove si ricongiunge ai commilitoni. Il soldato ringrazia e se ne torna a casa.

L’ufficiale al comando è stato sospeso, ovviamente, ma, a giudicare da fuori, sembra che se uno si scorda un sottoposto nel corso di un'operazione di pattuglia, la tensione non deve essere proprio alle stelle. Insomma, tutto è bene quel che finisce bene e questa è una buona notizia. L'altra è la nomina alla guida del Comando Centrale dell'esercito israeliano, con giurisdizione sulla West Bank, del Generale Nitzan Alon, inviso alla destra e noto per essere decisamente ostile ai coloni che hanno definito la sua nomina "una provocazione". Forse qualcosa sta cambiando.

Ho scritto, a volte, di Israele e del suo diritto ad esistere, anche come stato “ebraico” (un paio di lettere anche a Sergio Romano che gentilmente - ma anche un po’ deludendomi - mi ha risposto nella sua rubrica sul Corriere). E ritengo indiscutibile il diritto dei palestinesi ad avere un loro stato autonomo ed indipendente, all’interno di confini certi, ma concordati.

Oggi, visto anche il fatto accaduto, mi piace parlare di speranze e di pacificazione. Ricordando che l’unica grande e vera speranza per il Medio Oriente - grande speranza perché se una volta c’è stata è possibile che possa esserci di nuovo - è costituita dall’accordo raggiunto negli informali colloqui di pace svoltisi a Ginevra nel 2003 tra personalità di spicco, ma non ufficiali, delle due parti in conflitto. Accordo raggiunto, ma mai ratificato e mai accettato, ottusamente, dai due popoli.

Gli accordi di Ginevra hanno parlato di nuovi confini, di colonie ebraiche integrate nel territorio israeliano, compensate con il cedimento di equivalenti porzioni di terre, ma anche di evacuazione delle colonie minori, come fu messo poi in pratica a Gaza; hanno parlato di divisione di Gerusalemme in modo che possa diventare legittimamente la capitale di entrambi gli stati; hanno parlato di un diritto al ritorno per i profughi palestinesi solo simbolico, ma anche di compensazioni economiche per chi perse i suoi beni; hanno parlato di riconoscimento reciproco e di pacificazione garantita anche da forze multinazionali. Hanno parlato di tutto quello che qualsiasi testa pensante avrebbe potuto immaginare per risolvere una situazione così incancrenita e incattivita.

Ma soprattutto racchiudono una perla rara che è la quintessenza di tutto quanto si può ragionevolmente sperare dalla complicatissima vicenda israelo-palestinese o più ampiamente arabo-israeliana. La perla è che il conflitto è visto per quello che è: una lotta aspra e senza esclusione di colpi, per il possesso di un territorio. Senza ideologie, senza miasmi teologici, senza infamità di stampo razziale. Questa è la verità pura e semplice: il possesso di un territorio.

Questa caratteristica di conflitto “territoriale” può sembrare la scoperta dell'acqua calda, ma non va sottovalutata; questa non è, come molti di qua e di là della linea verde, cercano di farci credere, guerra di religione o persecuzione razzista; ha una caratteristica che porta con sé un altro concetto, reso evidente dall’accordo di Ginevra: la sua “terminabilità” (chissà se si dice così). La possibilità che, prima o poi, i rappresentanti delle due parti possano stabilire che “fino a qua ci stiamo noi e da qua in poi ci state voi; e finiamola qui”.

Né un conflitto religioso né uno a sfondo razziale offrono questa possibilità. Non esiste accordo concepibile. Ed è questo - detto per inciso - che, al di là dei comportamenti, fa la differenza tra il nazismo e il sionismo o tra la Shoah e la Nakba che molti insistono a voler paragonare ripetendo all'infinito lo stesso mantra. Non è la quantità di sofferenza o il numero dei morti (che pure hanno la loro importanza), ma la semplice constatazione che con i nazisti non si potevano nemmeno ipotizzare accordi.

Ci furono trattative sul trasferimento in un indeterminato ‘altrove’, ci sono stati versamenti di chili e chili d’oro per aver salva la vita, ci sono stati tira e molla che hanno permesso a qualcuno di vivere qualche giorno o settimana in più. Ma poi, quando arrivavano le Einsatzgruppen, gli ebrei morivano. Quando si sigillavano le porte dei carri bestiame per migliaia di chilometri, gli ebrei morivano. Quando si scendeva dai treni ad Auschwitz o a Treblinka o a Sobibòr, gli ebrei morivano. Quando si affrontavano assurde, incomprensibili marce della morte per andare da un non luogo ad un altro non luogo, gli ebrei morivano. Punto e fine delle "trattative".

Il conflitto israelo-palestinese, parliamoci chiaro, non presenta queste implacabili caratteristiche, nonostante momenti di disumana drammaticità (basta ricordare Sabra e Chatila). Ci sbatte in faccia da decenni ingiustizie e arroganza e violenza, sopraffazione e dolori, ma il fine ultimo è quello di appropriarsi di un territorio conteso da tre quarti di secolo, non di far sparire dalla faccia della terra un'intera popolazione. Almeno fino ad ora.

La pace quindi potrebbe essere possibile, lo dimostrano gli accordi di Ginevra, nonostante i numerosissimi falchi che, di qua e di là (ognuno spalleggiato dalle proprie agguerrite tifoserie occidentali ed orientali), boicottano con cadenza pressoché quotidiana gli sforzi di quelle piccole minoranze di brava gente che caparbiamente ancora ci prova. Ad un razzo risponde una bomba, a una bomba replica un missile.

La pace potrebbe essere possibile nonostante i guerrafondai che dalle segrete stanze del profondo occidente orchestrano nuove esportazioni di democrazia o che dai pulpiti d’oriente incitano ad ammazzare ebrei dopo aver negato che altri già, prima di loro, ne hanno ammazzati a bizzeffe; nonostante i politicanti che aizzano pattuglie di estremisti con la kippà, spesso piovuti da oltreoceano in nome di vetuste e folli pretese di promesse divine; nonostante chi fa a pezzi dei ragazzini nei bar o in discoteca e poi si lamenta del 'muro della vergogna' e chi se ne approfitta per costruire poi quel muro su pezzi di terra decisamente non suoi; nonostante gli interessati predicatori che chiamano alla guerra santa; nonostante i violenti - spesso autonominatisi “pacifisti” - che con estrema faccia tosta semplicemente alimentano la guerra con altri mezzi, come le provocatorie Flotille che chissà perché non si vedono mai navigare verso le coste tunisine o siriane a salvare quelli che muoiono per mano araba, non ebraica; nonostante i molti che scrivendo condannano subito e con sdegno la violenza israeliana, ma stranamente fanno una gran fatica ad interessarsi delle stragi dei dittatori mediorientali; nonostante chi urla alla barbarie islamica liquidando con un gesto della mano la fredda attività dei propri asettici droni che bombardano gente a cena e nonostante i preti di ogni religione che sventolano le loro bandiere (o le loro barbe) urlando in nome di un dio che nessuno ha mai visto, ma che comunque “sta con loro”, sempre e comunque. Nonostante tutto questo c'è chi propone di parlarsi. E se tutto questo sa di retorica, non me ne importa un bel niente.

Anche in Italia c’è qualcuno che da molti anni prova a proporre e riproporre continuamente occasioni di dialogo. Prova a far sì che gli accordi “ufficiosi” di Ginevra possano diventare accordi “ufficiali”. E’ il CIPMO, il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, di cui parla Stefano Jesurum sul Corriere di venerdì: “Un’esperienza unica in Europa: le prime grandi conferenze internazionali tra israeliani e palestinesi tra l’89 e il ’93; i seminari riservati fra il Likud e Fatah; decine di incontri anche segreti, convegni”.

Un’esperienza che rischia di chiudere per i tagli dissennati ai fondi per iniziative come questa (ma non all’acquisto dei famosi, nuovi e costosissimi cacciabombardieri). Ecco. A chi lavora davvero per un dialogo possibile, per alimentarlo con la concentrata attenzione che l’uomo primitivo dedicava alle poche pagliuzze secche e fumiganti che potevano diventare un bel fuoco - caldo e luminoso - solo se “coltivate” con estrema pazienza e prudenza, a questi vorrei dedicare queste righe. Perché penso che loro siano i veri pacifisti. Quelli che non si mascherano dietro ideologie precotte. Quelli che non si arrendono all'evidenza. Quelli che ci provano. Quelli che preparano, propongono, pianificano dialogo, non accuse e controaccuse che poi finiscono ineluttabilmente a richiamare la Shoah e la Nakba. Loro e quelli che a loro danno un minimo di credito.

Gli altri sono solo talebani di parte che, di qua o di là, danno il loro contributo grande o piccolo che sia, predicando lo scontro continuo armati della loro sacre certezze, solo allo scorrimento inarrestabile di quei fiumi di sangue che osserviamo ormai da troppo tempo, paralizzati da un'inaccettabile impotenza.

Il CIPMO rischia di chiudere; e credo che sia meglio se questo non succeda.

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Sperando di fare cosa legittima e utile pubblico qui la lettera aperta che il Cipmo ha mandato a Jesurum:

“Caro Jesurum,

vorremmo chiederle aiuto, data la sua costante attenzione e amicizia per il CIPMO che ora è in grave difficoltà. Finora, abbiamo contato essenzialmente sul finanziamento pubblico, ma negli ultimi tre anni i contributi sono diminuiti di oltre il 50%.
Anche se abbiamo ridotto le spese, non riusciamo più ad andare avanti. La ricerca di sponsor privati è resa difficile per le caratteristiche del nostro impegno, che non è ancorato a obiettivi fisicamente concreti e percepibili. La pace è astratta, e difficile. Il Centro rappresenta una esperienza per certi versi unica in Europa. Nato 22 anni fa, vede tra i fondatori il presidente Giorgio Napolitano e ha come presidente onoraria il Nobel e senatrice a vita Rita Levi Montalcini.
Promosso dal Comune e dalla Provincia di Milano, insieme alla Regione Lombardia, è riconosciuto dal ministero degli Esteri, ed è divenuto un punto di riferimento in Italia, in Europa e nel Mediterraneo, conosciuto, rispettato e stimato come interlocutore credibile per il suo approccio balanced e scevro da ogni propagandismo. In questi 22 anni abbiamo promosso il dialogo e la comprensione tra israeliani, palestinesi e arabi, e la cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo: con le prime grandi conferenze internazionali tra israeliani e palestinesi, tra l’89 e il ’93, i seminari riservati (voglio ricordare quello del ’98 tra Likud e Fatah, e l’ultimo, a Torino, con 14 sindaci israeliani e palestinesi); le oltre 100 conferenze sui nodi del Mediterraneo; i grandi convegni internazionali sull’Islam europeo, sui diritti di cittadinanza dei giovani musulmani di seconda generazione, sul fenomeno Turchia; la costruzione di un sito - www.cipmo.org – con una media di 130.000 pagine lette al mese più la newsletter. Sarebbe un peccato se tutto ciò andasse perduto”.

Dal dicembre 2003, il CIPMO è promotore e coordinatore del Comitato Italiano di Appoggio all’Accordo di Ginevra, il Modello di Accordo di pace promosso dagli ex ministri Yossi Beilin (Israele) e Yasser Abed Rabbo (Palestina).

Nella foto: http://www.cipmo.org/1501-indice-at... rappresentanti israeliani, egiziani, giordani, palestinesi, di altri importanti Stati arabi e della Lega Araba, insieme al Direttore dell’UNRWA a Gaza in un incontro promosso a Milano dal CIPMO - Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, in cooperazione con ACPD - Amman Center for Peace and Development, ECF – Economic Cooperation Foundation di Tel Aviv, PCSS - Palestinian Center for Strategic Studies di Ramallah.

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