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Magistra ficae. La storia secondo L’Occidentale

Nel 1857 Niccolò Tommaseo compilò, su commissione dell’editore Pomba, il primo grande dizionario della lingua italiana. Un’opera che si stagliava anni siderali, diranno i coevi, rispetto ai precedenti tentativi di redazione, con buona pace dell’Accademia della Crusca. Cosa ce ne frega?

E’ divertente raccontare che, alle voci socialismo, e comunismo, il buon Tommaseo accompagnò due belle croci. Che, stando alla leggenda (con 2 “G“), si riferivano alle voci che non era il caso di utilizzare, che erano – diciamo così – sconsigliabili. Alla faccia dell’egemonia culturale, direbbe Totò. Siamo o non siamo un popolo di vigliacchi sobillatori, di redigisti professionali, di indirizzatori occulti? La storia sappiamo scriverla meglio degli altri, o meglio, più degli altri. I tomi abbondano, bibliotece ingolfate, se paragoniamo l’apporto che ogni paese ha dato alla sua produzione storiografica. Perchè ognuno ha la sua, di storia. Ognuno è vincitore (si vedano europee, amministrative e ballottaggi di questi giorni), ognuno è dominus di una verità diacronica: è andata così. Il problema è l’italiano, l’uomo. Il suo carente analismo critico, la sua impossibilità nell’esprimere giudizi che non siano già stati dati. Godiamoci, quindi, una commuovente pagina di storia redatta dal Think Tank (vien da ridere) del Pdl, L’Occidentale (titolo: Pa-tri-zia Pa-tri-zia Pa-tri-zia).

Un tempo marciavano al grido: “Contro il potere del padrone ora e sempre rivoluzione”. Erano gli anni Cinquanta, quelli del boom e delle lotte operaie. Il fascismo e la guerra erano appena finiti, il paese era stanco ma erano in tanti a continuare a credere nel mito della Resistenza incompiuta. Nei fienili di campagna si nascondevano ancora le armi, aspettando il tempo giusto per fare la Rivoluzione, l’unica possibile, quella dei Soviet. Quella di Togliatti e del Pci. Una rivoluzione che però non arrivava mai.

Poi ci furono gli anni Sessanta, quelli della contestazione giovanile, dell’emancipazione delle donne, della rottura con la tradizione. I giovani scendevano in piazza, a fianco gli operai, ragazze e ragazzi vivevano liberamente tutte le parti di loro stessi, sessualità compresa. I volti cambiarono, gli slogan no: “Se non cambierà, lotta dura sarà!” e ancora “È ora, è ora, potere a chi lavora!”; “L’utero è mio e me lo gestisco io”. C’era un sogno, che si trasformò in utopia: realizzare un mondo più giusto e più bello per tutti. C’era il mito di Mao e quello del Che. Un’illusione che negli anni Settanta, quelli più duri, di sangue e piombo si trasformò in pochi slogan e tante botte. Il nemico erano i fascisti e quel mondo borghese che non capiva cosa significasse la vera libertà.

Stanchi di tanta violenza, anche chi credeva nel sogno comunista depose le armi. E cominciò a usare il linguaggio della politica. Erano gli anni di Berlinguer, di Alessandro Natta, poi di Occhetto e della svolta post-comunista.

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Piccola riproposizione, invece e nel nostro infinitesimale, della cronistoria attorno alla parte politica per cui credono parteggiare. O quantomeno, i loro ideali.

Negli anni 50, libere dal fascismo, le donne conquistano a fatica la loro emancipazione sessuale. Fino a giungere a grandi, millenarie rivoluzioni: minigonne, scrivanie da segretaria, foulard sventaglianti su cabriolet per le via Aurelia segnano il passo di una donna ormai pronta al vitalistico abbandono all’uomo. Orgasmi, sesso, vagina, col tempo non sono più parole tabù: arriverà il geniale Drive In, di Antonio Ricci, a dettare le fila di questa vera, unica, rivoluzione culturale, che porterà infine alle ventose poppe d’oggidì. Viva la fica.
TSC

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