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Lucilla Giagnoni: "Il teatro è la vita sotto la lente d’ingrandimento"

Intervista a Lucilla Giagnoni, attrice. Ma è una definizione troppo stretta per una professionista del teatro che ha alle spalle un percorso come il suo, fatto non solo di recitazione ma anche e soprattutto di ricerca.

Fiorentina, sposata con Paolo Pizzimenti (che compone le musiche originali per i suoi spettacoli) e madre, ha iniziato a recitare appena dopo il liceo nella Bottega di Gassman, lavorando con lo stesso Gassman, Paolo Giuranna e Jeanne Morceau. Fino al 2002, per quasi vent’anni, ha lavorato con Teatro Settimo, per iniziare poi una ricerca, più che una carriera, da “solista”.

La incontro per quest’intervista a Varallo Sesia, in un pomeriggio di prove per lo spettacolo “Il nostro mito quotidiano”, testo di Maria Rosa Pantè, che è stato portato in scena martedì 14 febbraio in dialogo con la musica dal vivo dell’orchestra “Giulia Bracchi” dell’istituto D’Adda di Varallo. La incontro appena dopo le prove e quando iniziano le domande le parole le escono di bocca immediatamente, naturali, con una chiarezza limpida, parole poetiche quasi.

Attrice da sempre praticamente; da dove è nata la scelta di dedicarsi completamente al teatro?

«C’entra molto il liceo classico, che ho frequentato. Studiavo molto, un sacco di ore, mi chiamavano addirittura “occhiaie lucide”, sono uscita con il massimo dei voti,... ma dopo il diploma c’è stato un momento in cui ho pensato che tutto questo studiare, che tutto questo sapere, dovesse per forza incarnarsi in qualcosa, oggettivarsi. Da questo la scelta del teatro, tutto si è incarnato nel corpo e nel corpo continuo a imparare, semplicemente in maniera diversa».

Ha frequentato la scuola di Vittorio Gassman e Jeanne Morceau, ha lavorato vent’anni con la compagnia torinese Teatro Settimo. Ma nel 2002 arriva la svolta, inizia a lavorare da sola. Perché la scelta del monologo?

«Dai vent’anni con Teatro Settimo ho imparato tutto, ma soprattutto la cosa fondamentale: l’essere attrice sarebbe stato mio solo se mi fossi occupata di tutto, produzione, ricerca di fondi, scrittura, drammaturgia... Ho capito che per essere attrice devi saper fare l’artista, saper creare le condizioni per essere artista, fin dalle coordinate della concretezza, come i fondi per gli spettacoli per esempio. Da Teatro Settimo ho imparato questo, di dover conoscere tutto il percorso. A questo punto il monologo era diventato una strada obbligata: volevo sentire che voce aveva la mia voce. Per vent’anni avevo lavorato a una voce collettiva, era il momento della mia voce».

Nei suoi monologhi però compare un altro protagonista oltre all’attrice: la musica.

«Quando fai un monologo sei una voce da sola. C’è anche la voce del pubblico certo ma arriva alla fine, quando interagisci con lui. La musica è invece il secondo interlocutore fondamentale. Nel mio caso è chiaro, ho cominciato a scrivere monologhi circa quando ho iniziato a lavorare con mio marito, musicista. Avevo bisogno di una voce che mi sostenesse ma allo stesso tempo mi lasciasse libera. Con il tempo Paolo (il marito, ndr) è diventato il secondo attore. Alcune volte gli propongo un mio testo e lui scrive la musica, ma spesso arriva prima la musica, dopo che gli ho sottoposto il progetto generale dello spettacolo, e poi ci scrivo sopra il testo. La musica arriva prima delle parole. Un esempio su tutti: tutti i finali dei miei spettacoli sono nati solo dopo la composizione delle musiche».

Nei suoi spettacoli dialogano continuamente minimo tre “voci”: letteratura, teologia e scienza. Perché?

«Teatro viene dal greco “theaomai”, “vedere”: guardare la vita sotto la lente d’ingrandimento, come in un laboratorio. Anche la scienza guarda la vita sotto un vetrino e anche la teologia, il discorso sacro su Dio , non la religiosità; sono rappresentazioni che l’umano si fa del mondo e del modo in cui vive. La nostra scienza è giovanissima, figlia del Seicento, mentre la teologia è molto antica, eppure tutte e due danno all’umano la possibilità di vedere il mondo diversamente. Pensiamo alla visione dell’universo nel ‘600, la terra è una virgola nell’universo tutto, contrapposta alla visione medievale dove la terra è al centro, nel perfetto disegno di Dio; davanti all’uomo seicentesco si apre un abisso ma invece di farsi risucchiare decide di sovrastarlo. La stessa voragine la troviamo nel ‘900 ma qui l’uomo precipita, nel relativismo, nell’esistenzialismo, nel nichilismo. Scienza e teologia consegnano all’umano rappresentazioni del mondo e di conseguenza cambia il modo di stare al mondo. Scienza e teologia sono meccanismi teatrali».

Il mito canta molti aspetti dell’umano e del divino: la guerra, l’amore, la mostruosità, la morte, l’amicizia, gli atti estremi, il coraggio, la sofferenza,... Qual è il personaggio classico cha la colpisce di più?

«Medea. Medea è la quintessenza di ciò che è il mito: non è giudizio, non c’è etica, non c’è un disegno finalistico; siamo uomini, con luce e ombra, e il mito ci ritrae. Per il mito non importa ciò che è giusto o ciò che è buono ma ciò che è umano, altrimenti non riuscirei mai a recitare Medea, che uccide se stessa nei figli, vittima e carnefice. Il teatro non si pone limiti morali o estetici, è importante solo ciò che è chiaro narrativamente. È luogo di grande libertà, comprende l’umano a 360 gradi, non c’è ideologia... perché il teatro è l’uomo».

“Il nostro mito quotidiano”, il titolo dello spettacolo del 14 febbraio a Varallo, contiene due parole che per molti sarebbero in contraddizione, mito e quotidiano: il mito per molti è vecchio, pagano, dotto, mentre il quotidiano è oggi, ciò che conta...

«In qualsiasi pratica umana, dalla mamma che dà da mangiare al bambino piccolo, si applica un meccanismo narrativo. Qualsiasi vita, per riuscire a comprendere sé stessa, si racconta. Se la storia, come sostengono alcuni, è solo fatti privi di senso, il compito dell’uomo è inanellarli; l’uomo racconta per dare ordine di senso. Il mito, con le sue storie di uomini e dei che sono uomini, cerca di dare un senso a ciò che è più oscuro, a quella nostra parte di ombra. Il mito, dicevo, non giudica, perché il male è parte del vivere: Zeus stupra, le ninfe offendono... Il mito è un inconscio collettivo che ci fa comunità, che ci fa diventare parte di un sogno comune o di un incubo comune; ma l’incubo è anche un percorso di salvezza, perché la capacità di dargli un senso alla luce di un racconto serve a renderlo inoffensivo».

Nel terzo millennio, che senso ha ancora il mito? Può aiutare il nostro mondo, certamente in crisi?

«Nella nostra ultima fase di vita societaria stiamo facendo degli errori: abbiamo medicalizzato tutto, perché la scienza ci ha dato un senso di onnipotenza e di controllo su tutto. Certe azioni inspiegabili le attribuiamo a una pazzia (Hitler, la tortura, gli stermini,...) ma rimane la domanda: perché è pazzia?».

E come rispondiamo?

«Chiudiamo fuori i mostri. Il mito invece, che purtroppo non riconosciamo più, ha la capacità di macinare e masticare (non di giustificare); può quasi impedire questi eventi estremi, perché li narra prima e narrandoli non c’è bisogno che avvengano. Ogni bambino ancora oggi è incantato dalle storie mitologiche: il mito è un luogo di racconto meraviglioso, dove non tutto è comprensibile ma tutto è da ascoltare».

Come può cambiare il mondo?

«Il mondo è come noi vogliamo che sia, è l’oggettivazione di un’individualità, di un’interiorità. Il mito è proprio il punto di unione fra interno e esterno, incubo e coscienza, narrazione e scienza, individuo e collettivo. E in questo atto cura, perché è il ritorno all’unità, all’armonia con il vivere».

Dal 2002 lavora a una serie di spettacoli-monologhi, “Vergine madre”, “Big Bang” e “Apocalisse”, che verrà presentata al Coccia di Novara il 18 aprile... una trilogia che più che una serie di rappresentazioni sembra una ricerca...

«Anche in questo c’entra il mito. Perché c’è un mito fondatore della nostra civiltà occidentale, l’11 settembre 2001; sono eventi epocali dove ognuno può dire cosa stava facendo esattamente, eventi che hanno manifestato una svolta di una civiltà sull’orlo del collasso, che non dialoga più. L’11 settembre ero a casa, la bambina stava guardando i cartoni animati in salotto; nel pomeriggio telefona un amico per avvisarmi del disastro e mi precipito in soggiorno dove mia figlia stava guardando tranquillamente quelle immagini catastrofiche delle torri gemelle. Subito la mia mente si è fatta prendere da quell’immaginario bellico, preparare gli alimenti, ripararsi, ma la mia parte irrazionale mi ha detto chiaramente: non farti prendere dall’inferno. Evitare l’inferno, indicare una via d’uscita.Da questo nasce “Vergine Madre”, uno spettacolo sulla Divina Commedia, per riportare Dante a una bellezza quotidiana, il poeta che spinge a cercare un’uscita dall’inferno. Poi non ho fatto altro che stare in ascolto: Dante chiude ogni cantica con la stessa parola, “stelle” e così ho guardato gli astri, obbediente a Dante. E’ nato “Big Bang”: ho trovato la scienza, ho deciso di farla dialogare con la Genesi, e per farlo ho studiato l’ebraico biblico, ho scoperto che è un libro molto più denso, più ricco, di come ce lo aspettiamo. E per finire il percorso “Apocalisse”, per scoprire che non vuol dire veramente “fine”».

Dodici anni di quella che lei ha chiamato “Trilogia della spiritualità”...

«Sì, sempre per andare avanti. La definizione “spiritualità” nasce dal fatto che abbiamo bisogno di questo; il mondo vuole negare il nostro essere simbolici, la ricerca disperata diun senso delle cose... Simbolici nel significato etimologico, mettere insieme le cose, essere il punto di unione fra interno ed esterno. Oggi viviamo al 10 per cento. Dobbiamo solo sondare l’altra parte dell’iceberg».

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