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Liberismo puro o welfare state?

La crisi economica che stiamo vivendo è figlia della crisi finanziaria scoppiata negli USA nel 2008

L’idea di uscire dalla crisi economica con una ricetta esclusivamente liberista, che da più parti viene prospettata, mi fa sorridere. Il fatto che a proporla siano le stesse persone che oggi puntano l’indice contro il welfare state, dopo essersi arricchite a dismisura ed aver spinto il mondo verso la recessione, m’indigna.

La crisi economica che stiamo vivendo è figlia della crisi finanziaria scoppiata negli USA nel 2008, che ebbe, com’è noto, nel fallimento della Lehman Brothers uno dei momenti di maggiore clamore. Ma come nacque quella crisi? E’ proprio vero che la colpa è attribuibile soltanto ai cittadini americani i quali, per qualche lustro, hanno vissuto al di là delle proprie possibilità?

No, non è esaustiva questa ricostruzione.

In realtà nel 2008 abbiamo assistito al più grosso fallimento delle teorie neoliberiste, sostenitrici della “deregulation”, dello slogan “più privato e meno Stato” e, soprattutto, fautrici della centralità del mercato, unico strumento capace di garantire l’equilibrio del sistema, la piena occupazione e il benessere di tutti. Il mercato, quindi, andava liberato da tutte quelle regole di funzionamento che, secondo gli “eredi” di Adam Smith, gli avrebbero impedito di dispiegare tutta la sua efficacia operativa; mentre, invece, secondo i seguaci di Keynes, quelle stesse regole avrebbero permesso allo Stato di garantire il corretto funzionamento del sistema economico in un’ottica di pubblica utilità.

Ebbene, le banche americane, negli anni precedenti il 2008, operavano in un sistema liberista tra i più puri al mondo, dove la deregulation era un vero e proprio vangelo. La loro politica creditizia, pertanto, non essendo soggetta a particolari vincoli di natura regolamentare, si rivelò estremamente “disinvolta”. I manager dei più grossi gruppi bancari, allettati dalle “stock option”, hanno finito per favorire la concessione di prestiti e mutui anche a chi non offriva le adeguate garanzie patrimoniali e reddituali. Si trattava, evidentemente, di mutui “subprime”, gran parte dei quali non sarebbero stati onorati. Il successivo processo di “cartolarizzazione” (cioè la loro trasformazione in titoli), al quale è seguita la vendita in tutto il mondo, ha finito per generare una crisi di liquidità nel settore del credito con effetti negativi su tutti i mercati borsistici mondiali.

Il possibile fallimento delle banche ha costretto i governi a correre ai ripari operando delle massicce iniezioni di liquidità a favore di queste ultime. Ecco come un debito privato, generato da una carenza di regole, o meglio, da una sfrenata deregulation, tanto cara ai neoliberisti, si è trasformato in debito pubblico, di cui dovranno farsi carico le future generazioni.

La crisi che stiamo vivendo è figlia di quel liberismo che oggi viene proposto come l’unica possibile via d’uscita. Appare paradossale il fatto che le stesse lobby di potere che hanno provocato questa catastrofe socio-economica oggi invochino un ulteriore ridimensionamento del welfare state e una contrazione dei diritti dei lavoratori, per proporre, ancora una volta, il solito ritornello: “più mercato e meno Stato”.

Arretrare troppo sul versante dei diritti e della sicurezza sociale non porterà niente di buono. C’è il rischio, infatti, che si venga ricacciati troppo indietro nel tempo, verso un’impostazione padronale della società che porterà inevitabilmente all’imbarbarimento delle relazioni sociali.

Occorre riconoscere, però, con onestà intellettuale, che negli ultimi decenni le teorie keynesiane sono state applicate con una certa superficialità. L’efficienza della spesa, tanto cara a John Maynard Keynes per la sua capacità di generare effetti moltiplicativi sul versante della crescita economica, forse per fini clientelari ed elettoralistici, è stata sistematicamente trascurata dai governi. Tutto ciò ha prodotto enormi deficit di bilancio e debito (come nel caso dell’Italia).

Sono convinto che non debbano essere messi in discussione i pilastri su cui poggia la costruzione keynesiana che, come si sa, ruotano attorno al caposaldo dell’intervento dello Stato in economia (anche perché è proprio grazie all’applicazione di quest’ultimo che è stato possibile effettuare il salvataggio delle banche). Occorre, invece, effettuare una seria riflessione sul modo in cui le teorie keynesiane sono state concretamente attuate negli ultimi decenni, specie nel nostro paese. Tutto questo sposta inevitabilmente il ragionamento sul versante della moralizzazione della politica e, soprattutto, della qualità della dirigenza pubblica (la più pagata al mondo!). Su entrambi i fronti, infatti, per decenni, abbiamo assistito a uno sperpero mostruoso di risorse pubbliche con il solo scopo di procacciarsi consensi elettorali, potere e ricchezza.

Per ridare efficienza al sistema paese occorre, quindi, rafforzare i meccanismi di controllo democratico da parte dei cittadini e contrastare in maniera incisiva ogni forma di illegalità, a cominciare dall’evasione fiscale. Quella che stiamo vivendo, prim’ancora che una crisi economica, è una crisi etica e dei valori.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.17) 13 marzo 2012 22:58

    Quello che viene definito "consenso elettorale" è molto semplicemente corruzione, quel fenomeno che nessuno vuole decidersi a combattere. L’evasione fiscale può diventare un effetto complementare della corruzione. E in questa situazione nulla può avere successo perché neanche il governo dei tecnici ha capito bene come indirizzare gli investimenti pubblici. Ancora si crede che le grandi opere in una sola regione siano il volano della ripresa, quando per nadare da Catania a Palermo ci vogliono oltre sei ore o Pompei cade a pezzi.

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