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Liberale

Perché intitolare un corso di storia dei partiti e dei movimenti politici utilizzando la parola liberale? Perché, respirando l’aria della globalizzazione, satura d’individualismo e competizione e avvelenata da partiti personali, in cui un nome sostituisce le idee che spiegavano i simboli, gran parte dei politici si dice liberale. Sono gli stessi che, collocati in trincee contrapposte – a destra o a sinistra – puntano a sterilizzare il conflitto.

 Molti, quindi, non solo non sanno che il liberale autentico vede nel conflitto un prezioso strumento di selezione dei gruppi sociali dotati di creatività e capaci di produrre sviluppo, crescita e progresso, ma non conoscono il fine che assume l’idea di conflitto nel pensiero liberale: impedire che la società si appiattisca su quello che a loro pare un conformismo e una mediocrità di massa, destinati inevitabilmente a scivolare verso un paralizzante egualitarismo.

Siamo, come si vede, nel sistema di valori della destra – anche se il deputato milita a sinistra – e ci troviamo di fronte all’esatto contrario dei fini che storicamente la sinistra assegna al conflitto: abolire privilegi e conquistare diritti collettivi per le classi subalterne.
La verità è che, presi dalla caccia al consenso, pochi ricordano che quando dici liberale, pensi alla sfida all’assolutismo, alla rivendicazione dei diritti naturali dell’individuo, all’affermazione del principio della separazione dei poteri e disegni un mondo in cui la società e le libertà individuali prevalgono sullo Stato e sulle sue strutture.

Il tempo in cui questa parola fu sinonimo di modernità si colloca tra il secolo dei lumi, le lotte contro la Restaurazione e l’affermazione dello Stato liberal-democratico; un’antica modernità, che ci rimanda all’atmosfera «romantica» in cui, come ebbe a dire Einaudi, in Occidente misero radici, come ideale supremo, «l’imperio della legge e l’anarchia degli spiriti».
A molti dei nostri sedicenti liberali dovrebbe esser chiaro – ma non lo è – che non sempre la legalità corrisponde alla giustizia sociale, ma è spesso il braccio armato delle classi dominanti e che l’anarchia degli spiriti non scioglie i nodi della questione sociale. Dovrebbe essere chiaro anzitutto che il liberale fece la sua rivoluzione per conquistare «la libertà di», ma non si pose il problema di dare risposte a un’altra complessa necessità sociale, quella che, mutata una proposizione semplice, si riassume nella conquista della «libertà da».

Al rivoluzionario liberale interessavano la libertà di parola, di stampa, di associazione, di riunione, di partecipazione all’esercizio del potere politico e quella – fondamentale – di iniziativa economica individuale. Trattandosi di lotta per la libertà, avrei potuto anche intitolare il corso con la parola «socialismo», ma mi è sembrato di dover prendere atto che il liberalismo e i liberali veri si sono dimostrati più tenaci, anche se è stato il socialismo a consentirci di fare un decisivo passo avanti rispetto al liberalismo. Sono stati i socialisti, infatti, a spostare l’attenzione dai diritti individuali civili e politici, al diritto di liberarsi dall’ignoranza, dalla paura, dal bisogno, dallo sfruttamento; sono stati i socialisti a dubitare che possa esistere una reale libertà individuale, quando non si hanno gli strumenti materiali e morali per esercitarla. E non c’è dubbio: là dove il liberale ha trasformato in dogma la sua concezione dello Stato, visto come un impedimento e gli ha chiesto di star lontano dalla sua vita, il socialista ha voluto e talora ottenuto «più Stato».

C’è, poi, un dato di fatto che mi ha convinto a scegliere il titolo. Storicamente la destra liberale non si discosta dalla sua fede e se oggi innalza alla gloria degli altari il mercato e le sue leggi, viaggia sul binario naturale della sua concezione del mondo, parla alla sua gente la lingua che comprende e che vuole ascoltare, si organizza in partiti che hanno alle spalle un antico e collaudato sistema di valori e utilizza il conflitto come ha sempre fatto nel corso della sua vita. Fuori posto – e forse per questo spariti dalla scena o annichiliti – si collocano, invece, i socialisti e le loro organizzazioni. I partiti di sinistra, derogando progressivamente dai propri principi, hanno retto finché la logica del profitto ha consentito la mediazione del riformismo democratico, poi sono crollati.

La tenacia con cui i liberali, decisi a difendere i privilegi delle élite, hanno tenuto fede alla loro antica avversione aristocratica per tutto ciò che è elargito dall’alto, è uscita rafforzata dal crollo del «socialismo reale» e dalla conseguente trionfale affermazione di una società fondata sul mercato e sulle sue leggi. Per la sinistra, invece, la svolta del 1989 ha prodotto la fine dei suoi grandi partiti politici e il progressivo passaggio della sicurezza sociale dal livello istituzionale-statale a quello della cosiddetta società-civile, con i suoi sottosistemi autonomi dal sistema politico.

Negli ultimi anni i partiti politici, diventati soprattutto collettori di consenso, hanno ristretto il loro campo di azione e di interessi e rivendicano obiettivi e funzioni un tempo legati alle autonomie locali e indirizzati contro lo Stato burocratico centrale. Una regressione che sembra quasi ricondurci alla realtà degli Stati regionali, ancora presenti nel primo parlamento del Regno d’Italia, la cui composizione, tipica dell’Italia liberale ottocentesca ci offre oggi interessanti spunti di riflessione.

La prima Camera del Regno d’Italia, per fare un esempio, era formata da 181 liberi professionisti, 117 tra cavalieri e commendatori,108 aristocratici, 69 impiegati, 52 professori, 36 militari di alto grado, 13 magistrati, 11 membri del clero, 8 commercianti e industriali, 7 milionari senza specifica professione, 5 banchieri, 4 ammiragli, 2 prodittatori, 2 dittatori e il musicista Giuseppe Verdi. Tutti di formazione più o meno liberale, formavano un organismo politico così privo di rappresentanza che qualcuno ironicamente osservò: «Non si dirà di certo giammai che il nostro è un Parlamento democratico. Vi è di tutto, il popolo eccetto».
Oggi, che la crisi dei partiti diventa sempre più crisi della democrazia rappresentativa, emerge una pericolosa nostalgia di parlamenti lontani dal popolo e non a caso si pensa di ridurre il numero dei loro componenti. Nostalgia di un parlamento liberale alla vecchia maniera, nel quale brillano per assenza due delle tre famiglie politiche che hanno fatto la storia del nostro Paese: quella socialista e quella cattolica. Come capita spesso nella vicenda umana, non sempre i cambiamenti annunciano miglioramenti e a ben vedere la crisi dei partiti politici, attraverso i quali i cittadini dovrebbero concorrere a determinare la politica nazionale, più che all’alba del futuro, fa pensare purtroppo a un triste ritorno al passato.

Scuola del legami

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