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 Home page > Attualità > Economia > Legge di bilancio | Lo stato revisore e l’ubriachezza normativa

Legge di bilancio | Lo stato revisore e l’ubriachezza normativa

L'obiettivo, nella scrittura delle norme, sembra diventato quello di massimizzare l'incertezza sino alla paralisi operativa, e persino bloccare l'innovazione. Risorse sempre più scarse vengono dissipate in mille rivoli di assurdo.

Un paio di mesi fa, avevo segnalato la presenza, nella legge di bilancio 2025, di una misura piuttosto singolare, per usare un eufemismo: quella che prevede(va) di insediare un rappresentante del Ministero dell’Economia e delle Finanze negli organi di controllo dei destinatari di contributi pubblici per importi “significativi”. Una misura che presentava numerose criticità, di metodo e di merito, come dicono quelli bravi.

La legge è arrivata al traguardo, alcune cose sono cambiate nel testo, che a dire il vero non ha fatto che essere modificato in itinere, ma restano incoerenze e velleità, oltre alla certezza che scrivere norme, in questo paese, sembra demandato a ubriachi che si divertono a produrre entropia.

Cancellazioni e dimenticanze

La dialettica tra governo e forze di maggioranza, soprattutto Forza Italia, che considera la norma (non a torto) come una sorta di eredità culturale della DDR, ha portato alla cancellazione della presenza dei revisori del Mef negli organi di controllo, sostituiti da una relazione annuale a carico di “società, enti, organismi e fondazioni che ricevono un contributo di entità significativa a carico dello Stato”. Quest’ultimo, in origine fissato a 100 mila euro in via provvisoria, ora è rimesso a un successivo decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm).

Nella foga del negoziato, e con la sabbia della clessidra che scorreva inesorabile, ci si è tuttavia scordati di un “dettaglio”: è rimasto l’obbligo di revisione di spesa a carico dei soggetti beneficiari dei contributi pubblici. I quali

[…] a decorrere dall’anno 2025 non possono effettuare spese per l’acquisto di beni e servizi per un importo superiore al valore medio sostenuto per le medesime finalità negli esercizi finanziari 2021, 2022 e 2023, come risultante dai relativi rendiconti o bilanci approvati.

La lettera della legge, quindi, pare imporre anche ad aziende private destinatarie di contributi pubblici, “anche in modo indiretto e sotto qualsiasi forma”, la revisione di spesa. Il che significa, ad esempio, che chi ha ricevuto bonus ricerca e sviluppo e sconti fiscali per Transizione 4.0 dovrà limitare gli acquisti, inclusi quelli che fanno parte della normale esistenza aziendale, come il finanziamento del capitale circolante, per non parlare di nuovi investimenti?

Come scrivevo a ottobre,

Anche qui, occorre distinguere: se parliamo, come recita l’articolo, di “enti”, “organismi” e “fondazioni”, cioè entità private ma beneficiarie di contributi pubblici, il concetto ha certamente senso, vista la proliferazione di entità del genere che finiscono col socializzare i loro costi in base a un non meglio specificato criterio di merito, definito dalla politica. Questi sono, a tutti gli effetti, costi della politica. Se invece parliamo di aziende, cioè entità che vendono prodotti su un mercato, ne ha assai meno.

A questo punto, si potrebbe immaginare che il governo interverrà nel successivo Dpcm, identificando tipologie di contributi e soggetti da escludere. Ed effettivamente, questa era l’idea contenuta in una delle innumerevoli riformulazioni dell’articolo. Ma questo testo non è mai stato approvato, quindi pare che il Dpcm si occuperà solo della soglia di rilevanza dei contributi pubblici che fa scattare i limiti.

Motoseghe immaginarie e barocco normativo

Comprendo che Giancarlo Giorgetti abbia impugnato la motosega, almeno nei suoi sogni, e quindi punti a disboscare la pletora di beneficiari di soldi pubblici, cosa che sarebbe molto bella se solo fosse vera. Ma a monte servirebbe saper scrivere testi di legge. Ricordo solo che, già due mesi fa, avevo identificato le criticità di questo testo. Non era difficile, dopo tutto: basta avere un minimo ancoraggio alla realtà.

Ma, per l’ennesima volta, ci troviamo di fronte a norme demenziali, bisognose di interpretazioni autentiche successive, con relative forzature, per evitare il caos. E ricordiamo anche che, tra i maggiori beneficiari, figurano gli enti del terzo settore, che forse andrebbe esplorato in modo approfondito.

Ma non è tutto: nell’ambito del reticolo di condizioni ex ante ed ex post previste per fruire della cosiddetta Ires premiale, cioè della riduzione (per un solo anno) dell’aliquota d’imposta sulle società, che già di per sé sono piuttosto restrittive e non del tutto coerenti, è pure stabilito che i beni oggetto di investimento non devono essere ceduti, dismessi o delocalizzati all’estero sino al termine del quinto esercizio successivo a quello di investimento.

Fonte: Il Sole 24 Ore

Ora, pensate a beni d’investimento tecnologicamente avanzati: diventano rapidamente obsoleti. Cosa fa il legislatore? Li imbullona all’azienda per cinque anni, un’eternità. Se non lo fa, deve restituire il beneficio. Né è prevista la possibilità di sostituirli. Dovete tenervi questo peso se avete beneficiato dell’Ires premiale, che di premiale ha ben poco. Succede, quando si è in ristrettezze finanziarie e si è danneggiato qualcosa che funzionava e doveva solo essere aggiornato, come l’ACE.

Il mondo è governato dall’entropia, ma la stupidità si accumula.

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