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Le rotte dell’interesse nazionale: intervista ad Alessandro Aresu

Alessandro Aresu è autore e consigliere scientifico di Limes, principale rivista di geopolitica italiana, di cui è da anni una delle firme di punta. Nelle sue analisi, Aresu ha a più riprese affrontato il tema dell’interesse nazionale italianomolto spesso negletto nell’analisi mediatica ma di cruciale importanza per capire le rotte del Paese nel contesto globale. 

All’interesse nazionale Aresu ha dedicato anche il suo ultimo saggio, scritto assieme a Luca Gori e intitolato L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia (il MulinoAREL, 2018). L’Osservatorio Globalizzazione ha voluto contattare Aresu per discutere con lui dei temi oggetto delle sue analisi. Questa intervista rappresenta il punto di partenza di un dossier dedicato proprio al tema dell’interesse nazionale che nelle prossime settimane sarà pubblicato, articolo dopo articolo, sulle pagine del sito.

Osservatorio Globalizzazione: Nel suo recente saggio sull’interesse nazionale, lei ha provato a delineare i tratti salienti della “bussola” strategica del nostro Paese. Ritiene lo stato attuale della classe dirigente italiana adatto per seguire tale bussola?

Alessandro Aresu: Partiamo da una fondamentale premessa: esiste più la discussione sulla classe dirigente italiana che la classe dirigente italiana. L’Italia presenta poche grandi imprese, soprattutto legate alle partecipazioni pubbliche, meccanismi di formazione della pubblica amministrazione non all’altezza, scarso senso storico e geopolitico, partiti politici caduchi e volatili, disinvestimento sistematico in formazione e ricerca. Pertanto, la classe dirigente italiana non esiste, nonostante gli italiani abbiano grandi capacità in vari campi. Quello che esiste, in luogo dell’oggetto, è il dibattito su di esso, su cui comunque le migliori riflessioni sono state prodotte fino agli anni ’70.
Nell’Italia di oggi esistono alcune figure, rarissime, di vera classe dirigente nel senso più nobile: un esempio è Giuseppe Guzzetti, il quale infatti ha costruito una istituzione, una squadra, una sensibilità sociale, non un edificio personale. Esistono poi ancora alcune carriere (difesa, esteri, servizi di informazione, interni, alta magistratura amministrativa, per esempio).
Inoltre, avendo perso l’orizzonte organizzativo, formativo, nonché la capacità di realizzazione delle politiche, oggi la politica esercita un solo potere: il potere di nomina. Ovviamente è un potere del tutto legittimo, ma se abbiamo “solo” questo, abbiamo una nozione limitante di politica, anche auto-limitante.
Per quanto riguarda le classi agiate (non classi che “dirigono” gli affari del Paese in una direzione, ma atomi meglio patrimonializzati in un contesto in cui l’ascensore sociale conta sempre di meno), esse sembrano sempre meno interessate al percorso dell’Italia nel futuro, e le scelte di formazione dei loro figli ne sono un segnale molto preoccupante. Un sondaggio di ECFR segnalava la crescente preoccupazione italiana per l’emigrazione, tema che credo sia destinato a aumentare. 
Tutti questi sono esempi di una bussola perduta, di uno scenario confuso. Personalmente, il “mistero della storia” della classe dirigente mi ha sempre interessato come oggetto di studio e ricerca. Impegnandomi per costruire un progetto formativo per giovani italiani, la Scuola di Politiche, ho provato a iniziare a dare il mio contributo per formare i più giovani. Anche ai ventenni di oggi tocca dimostrare di essere all’altezza della migliore generazione della storia d’Italia, quella della ricostruzione nazionale. Finora, tutte le altre generazioni che l’hanno seguita hanno sistematicamente fatto peggio, compresa, per ora, quella dei trentenni alla quale io appartengo.

Osservatorio Globalizzazione: Da dove dovrebbe partire la formazione di una classe dirigente italiana adatta al mondo globalizzato?

Alessandro Aresu: In primo luogo, da un senso generale di curiosità, elemento cruciale per saper stare al mondo, soprattutto oggi.
In secondo luogo, da un maggiore rispetto per chi lavora nell’istruzione e nella ricerca. Troppo spesso quelle persone sono state umiliate, considerate un peso per il Paese. Un atteggiamento troppo diffuso e autolesionista.
In terzo luogo, da un ritorno di attenzione per la cultura industriale, per la cultura storica e per la storia dell’industria nelle grandi imprese. Più studio del pensiero di Marcello De Cecco, meno ricorsi a società di consulenza straniere, che spesso rappresentano non una facilitazione delle operazioni aziendali bensì un depauperamento dei processi interni, della capacità autonoma di leggere il mondo, della gestione delle persone.
Infine, da un senso di coesione nazionale in grado di oltrepassare le divisioni politiche. Il successo delle forze politiche è infatti sempre di breve termine nell’esperienza dell’Italia dopo la guerra fredda. Perciò ci si divide per cose che, alla fine della fiera, contano davvero poco e si produce molto rumore per nulla, in un eterno “Giorno della Marmotta”.

Osservatorio Globalizzazione: Quali sono, secondo lei, le ragioni per cui l’Italia ha questo rapporto così travagliato con il proprio interesse nazionale?

Alessandro Aresu: Molti sono i motivi che ho già citato e che interagiscono con questo “travaglio”. Cerco di elencarne alcuni relativi all’attualità. Da un lato, c’è l’impatto di lungo corso del fascismo come spauracchio, non come fenomeno storico. Se ne discute anche oggi, in modo a mio avviso eccessivo, dove gli aspetti chiari della Costituzione vengono confusi con un’accusa di “fascismo” che diviene troppo estesa, spesso con argomenti che storici come Emilio Gentile hanno smontato. L’esigenza di ordine fa invece parte di una società libera e può essere svolta con argomenti democratici.

C’è poi una ritrosia sul concetto di forza. È l’illusione dell’esistenza di un mondo irenico, dominato dalla pace, in cui non esistono i conflitti, in cui non ci sono guerre economiche, guerre tecnologiche, per esempio. Un mondo che non esiste. Una barzelletta pericolosa.
C’è poi l’esigenza di una maggiore conoscenza delle figure e delle correnti centrali del pensiero italiano, dell’umanesimo e della scienza nel nostro Paese, degli statisti e degli imprenditori che hanno costruito la nostra “religione civile”. Anche la sicurezza nazionale, che nella costruzione dell’interesse nazionale è senz’altro un concetto centrale, viene considerata spesso in termini strabici, intermittenti, altalenanti. Si pensi, nel sistema politico italiano, che soffre della volatilità e della casualità che abbiamo già richiamato, alla sorta di fascinazione ingenua per i servizi di informazione e di sicurezza, che è una cosa molto diversa dalla consapevolezza dell’importanza e della centralità della sicurezza e dei suoi corpi nella gestione degli affari di uno Stato.

Osservatorio Globalizzazione: Quanto ha impattato la “morte della patria”, la difficoltà italiana a costruire riferimenti univoci e condivisi a un’identità politico-istituzionale salda, nel difficile rapporto tra il nostro Paese e la definizione dei suoi interessi nazionali?

Alessandro Aresu: Ha avuto senz’altro un impatto. L’impatto più profondo, tuttavia, e quello che risulta più urgente affrontare oggi, è a mio avviso la “morte della guerra fredda”.
Mi spiego: noi abbiamo considerato la guerra fredda una sorta di “stato permanente” della vita dell’Italia repubblicana, su cui abbiamo plasmato la modalità di funzionamento del Paese. Dopo la guerra fredda, abbiamo forse avuto nuove “Repubbliche”, ma non un’identità politico-istituzionale salda né un senso della direzione del Paese nel cambiamento di sistema. Questo è pericoloso. Così proclamare nuove “Repubbliche” diventa del tutto inutile, è un diversivo. Vedrete che tra qualche anno diranno che è iniziata la Quarta. Sono temi su cui Lucio Caracciolo ha scritto un bellissimo libro, Terra incognita, che andrebbe ripubblicato al più presto, magari con una nuova post-fazione “cavouriana” di Caracciolo.

Osservatorio Globalizzazione: Venendo all’economia come strumento della politica nazionale, come giudica lo stato del Paese nel contesto europeo e globale?

Alessandro Aresu: Divaricato e preoccupante. L’Italia non può essere trascinata da alcune imprese “gazzelle” e da qualche area urbana, facendo sprofondare il resto in un Sud che si allarga a dismisura, come mostrato negli studi SVIMEZ. La stagnazione della produttività e l’alto debito sono fattori preoccupanti, come il crollo degli investimenti e, ancor di più, la ridotta capacità di esecuzione degli investimenti programmati.

Osservatorio Globalizzazione: Le peculiarità del capitalismo italiano, poche grandissime imprese e moltissime micro o piccole/medie imprese, sono un vantaggio nel perseguire l’interesse nazionale nel mondo globalizzato o uno svantaggio?

Alessandro Aresu: Uno svantaggio, proprio perché non si tratta tanto di PMI quanto di microimprese, che sono attori economici profondamente diversi. Quindi anche tutta la retorica delle PMI tende a parlare di realtà inesistenti. Non c’è il Mittelstand in Italia, ma questa gigantesca distesa di microimprese e poi un tessuto di PMI esiguo, una grande impresa quasi inesistente. Giuseppe Berta l’ha spiegato benissimo più volte. Perciò la forza industriale italiana, in questa situazione, non può essere mantenuta, anche per la sottovalutazione del legame tra finanza e manifattura, mentre per una tara culturale si tende a separare questi ambiti, a parlare in termini astratti di “industria buona” e “finanza cattiva”. In questo scenario la competizione è deputata all’eroismo di imprese che, nonostante tutto, si internazionalizzano, ma la frase di Brecht sugli eroi si applica anche ad esse. Pertanto, non si può parlare di interesse nazionale se non poniamo al centro della questione la crescita dimensionale delle aziende.

Osservatorio Globalizzazione: Che ruolo può svolgere oggigiorno la grande impresa a partecipazione pubblica (Eni, Cdp, Leonardo e così via) nella definizione degli interessi nazionali?

Alessandro Aresu: Un ruolo importante ma allo stesso tempo rischioso.
Se considerato in termini di mera “supplenza” verso lo Stato e verso la cultura di un Paese, esso rientra in una categoria di Cassese, quella della “fuga dallo Stato”. Per fare esempi relativi alle aziende citate, non è che puoi realizzare la progettazione delle opere solo con Cdp, non è che puoi gestire la politica estera solo con l’Eni. Non puoi vivere solo e soltanto di toppe permanenti, ancor più se hai un vincolo politico che non ha più equilibrio. La vicenda di Leonardo ha mostrato il peso negativo delle oscillazioni politiche sulle scuole manageriali, anche qui in riferimento all’elemento che ho toccato prima: una politica debole, con partiti o movimenti che non durano nel tempo e con forti oscillazioni nervose, risponde esercitando in modo quasi esclusivo il potere di nomina, riducendo a questo il potere. Quello delle scuole manageriali è un tema essenziale, sistematicamente sottovalutato nell’Italia seguita al “sistema Beneduce”.
A mio avviso, se vogliamo sintetizzare, nella grande impresa a partecipazione pubblica vi sono tre elementi molto importanti.
II primo è agire secondo una reale definizione di ciò che è strategico, soprattutto nelle acquisizioni (secondo me, strategica è, in estrema sintesi, l’alta tecnologia, ma va definito con una chiarezza che tuttora manca al nostro sistema). Altrimenti rientri nella logica delle toppe o del tenere in piedi ciò che non ha senso, invece di concentrarti su altro (la “bussola”). E il tempo del mondo non ce lo consente.
Il secondo elemento è una consapevolezza geopolitica, storica, geografica comune, che dovrebbe caratterizzare il nucleo della grande impresa pubblica, che attualmente non si scorge.
In terzo luogo, l’azione sulla capacità scientifico-tecnologica del Paese: anche questa dovrebbe tornare a essere pienamente parte della nostra “storia civile”. 
Questi tre elementi dovrebbero interagire, come visione generale, nelle differenze che ovviamente ci sono tra le diverse società, tenendo sempre presente il loro rapporto con il mercato.

Osservatorio Globalizzazione: Come può l’Italia ovviare alle grandi debolezze e criticità del suo sistema finanziario, fonte di fragilità?

Alessandro Aresu: Anzitutto, con la crescita del suo potere negoziale nell’ambito europeo: un’azione silenziosa, concertata, determinata, che non si faccia mai disorientare dalle chiacchiere. Un’azione che può essere svolta solo se non si delegittimano i funzionari, se non si delegittimano a vicenda le varie istituzioni coinvolte, se si conoscono i processi negoziali, se si costruiscono alleanze adeguate. Come ho argomentato, penso inoltre anche che l’Italia avrebbe bisogno di ministri dell’economia politici, altrimenti l’uso del tecnico di turno diventa un diversivo o un meccanismo di delegittimazione reciproca sul piano interno.
E vale anche su questo il discorso sull’autolesionismo della separazione impossibile tra industria e finanza.

Osservatorio Globalizzazione: In prospettiva, lei giudica sostenibile la possibilità di un’Italia attivamente protagonista nella “Nuova Via della Seta”? Ritiene che tale progetto, se ben gestito, possa valorizzare la posizione italiana del Mediterraneo?

Alessandro Aresu: Ritengo positivo che su questo tema ci sia stato un embrione di dibattito nel nostro Paese. In termini di metodo, è sempre importante che sulle grandi scelte si ragioni e si oppongano argomenti e opzioni alternative.
Giudico in ogni caso errato l’argomento avanzato dalle istituzioni per avvalorare la partecipazione italiana: si è sostenuto che un documento politico sia un volano economico per recuperare un divario, mentre accordi economici di vasto respiro sono stati, sono e saranno firmati dall’Italia e da tutti gli altri attori con Pechino a prescindere da questa adesione. Un’adesione che ha dunque più carattere geopolitico o perlomeno segnaletico. Quindi l’argomento per l’aderenza italiana è stato sbagliato, ma non è detto che non dia dividendi in termini di crescita dell’interscambio, che forse sarebbero arrivati comunque visto che non abbiamo la controprova. Come si è già visto, e come era ampiamente prevedibile, è arrivata anche la controffensiva di Washington: un aspetto estremamente sensibile considerando la situazione di difesa e di sicurezza del nostro Paese. Vista questa breve “analisi costi/benefici geopolitica”, ciò che avrei fatto o consigliato io è: firmare accordi tra imprese ovviamente sì, firmare quel “Memorandum” (ma ancor prima avviare le sue trattative) no.
Più in profondità ritengo, come ho scritto tempo addietro su Limes, che l’interesse cinese per il sistema italiano non riguardi gli investimenti greenfield, che riguardano un aspetto generale di competitività del Paese. I cinesi possono realizzare qualcosa, in termini di centri di ricerca, come già fatto in passato (sempre senza “Memorandum”). Non credo però che i cinesi costruiranno grandi infrastrutture in Italia, per esempio. La resistenza di vaste parti del popolo italiano alle grandi infrastrutture e le difficoltà di realizzazione sono problemi per tutti gli investitori. Figuriamoci se il Partito Comunista Cinese fa l’elogio delle “piccole opere”, come si sente dire in Italia a prescindere dai governi. Quindi il Partito Comunista su questo non butta i soldi, che non sono illimitati, soprattutto in questa fase su cui vi sono conflitti interni. Diverso il caso dell’acquisizione di alcuni asset, soprattutto in ambito di infrastrutture e di telecomunicazioni. Per questo la Cina è disposta a pagare di più, forse molto di più, e potrebbe farlo, mettendo così lo Stato italiano davanti a scelte difficili. Rispetto agli investimenti degli Stati Uniti, i cinesi promettono alle realtà manifatturiere italiana una maggiore penetrazione nel loro mercato in crescita: un aspetto tutto da verificare, come è da verificare un’integrazione tra imprese italiani e cinesi in infrastrutture all’estero.
In questo scenario in evoluzione, il conflitto tecnologico tra Washington e Pechino è la grande questione del mondo in cui viviamo. Quindi quasi tutto può essere visto nella prospettiva di questo conflitto, compreso ciò che non lo è. Pertanto, i risultati italiani si misureranno molto sull’esito di questo conflitto. Il mondo in cui il primato tecnologico americano sarà davvero scardinato a Shenzhen e quello in cui il Partito Comunista Cinese cadrà davvero sotto i colpi di Washington sarebbero molto diversi. Attenzione però a non sopravvalutare gli interessi dei due contendenti in ciò che ci riguarda intimamente: mi pare che il coinvolgimento di Washington e di Pechino in alcune partite mediterranee di primaria importanza per l’Italia (parlo della Libia), per loro volontà, sia molto inferiore a quello, per esempio, di Abu Dhabi. È comunque evidente che anche sul piano culturale la Cina abbia accresciuto la sua presenza nel Mediterraneo, basti pensare ai rapporti con Israele e la Santa Sede.

Osservatorio Globalizzazione: Commercio a parte, come potrebbe l’Italia tornare protagonista nel Mediterraneo? Quali sono le sfide più importanti e quale il ruolo da giocare in seno alle organizzazioni internazionali?

Alessandro Aresu: È una domanda molto vasta, ne riduco in parte la portata.
L’Italia deve percepirsi come paese mediterraneo, e non credere di poter bypassare o far affondare un Sud sempre più esteso perché altre parti d’Italia sono “locomotive” del Paese. Quella che ho espresso è una posizione di principio, ma la sua realizzazione non è certo semplice, quando passiamo al concreto. Anche considerando il sistema istituzionale italiano, in cui penso che la forma regionale vada radicalmente cambiata, direi superata.
Il contesto interno è decisivo. È attraverso un migliore funzionamento del sistema interno sia infrastrutturale che formativo che l’Italia può avere un ruolo maggiore, può riuscire a ottenere maggiori risultati. Non dimentichiamo il ruolo della difesa e della sicurezza e l’illusione del mondo irenico, che abbiamo toccato in precedenza: il Mediterraneo è anche uno spazio di conflitti e di guerre per procura, in cui occorre (occorreva, spesso ci riferiamo a treni ormai passati) operare con equilibrio, continuità, chiarezza.
Più in generale, credo che la diplomazia universitaria e della ricerca sia un aspetto da non sottovalutare. L’Italia anche molti decenni fa aveva iniziative molto lungimiranti sulla formazione delle classi dirigenti mediterranee, come Finafrica di Giordano dell’Amore. Una vera logica dell’interesse nazionale ne avrebbe fatto un punto di Archimede, ma questo ci riporta allo scacco sulla classe dirigente da cui siamo partiti.

Articolo originariamente pubblicato su Osservatorio Globalizzazione

Questo articolo è stato pubblicato qui

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