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Le promesse "a caro prezzo" di Tsipras

Vinte le elezioni grazie all'ondata popolare del fronte "anti-austerity", per Alexis Tsipras è arrivato il momento di passare dalla politica degli annunci a quella della realtà. A cominciare dai numeri, che parlano chiaro: il debito pubblico della Grecia ammonta a circa 330 miliardi di euro, pari al 175% del Prodotto interno lordo.
 
Le promesse elettorali di Syriza "costano" 11 miliardi e mezzo di euro. Inoltre sono prossimi alla scadenza quasi 10 miliardi di euro di bond: 3,5 a luglio e 3,7 ad agosto, che portano il conto totale a quasi 21 miliardi, da trovare con una certa urgenza. La domanda spontanea che qualsiasi commentatore non schierato ideologicamente dovrebbe porsi è: con quale soldi Tsipras potrà mantenere fede ai patti?
 
Nel corposo elenco delle "rivoluzioni sociali" che il nuovo governo greco vorrebbe varare, salta subito all'occhio l'ingente costo delle coperture. Tsipras in campagna elettorale ha promesso di ripristinare la tredicesima mensilità per centinaia di migliai di pensioni minime, di ridurre se non addirittura eliminare l'imposta sulla prima casa, oltre che fornire la corrente elettrica e distribuire i buoni pasto alle famiglie più bisognose. In più ha dichiarato di voler inalzare la soglia di esenzione fiscale da 5.000 a 12.000 euro in un paese che soffre di un'evasione fiscale gigantesca o di elevare il salario minimo da 450 a 700 euro.
 
Infine ha annunciato il ripristino dell'assicurazione sanitaria ai disoccupati, che rappresentano il 25% della popolazione (il 50% di quella giovanile). Un modello di welfare in stile Europa del Nord che però mal si addice alle esigue casse pubbliche dello Stato greco, quasi al collasso estremo. Non a caso le principali banche elleniche si sono allarmate perché il governo potrebbe "attingere" alle riserve di un Fondo di stabilità, pari a circa 11 miliardi, necessario per garantire un minimo di ricapitalizzazione in caso di persistente crisi di liquidità.
 
In realtà le intenzioni di Tsipras sarebbero quelle di concordare con la Troika una riduzione del debito pubblico o un allungamento delle scadenze, riparametrando il pagamento degli interessi, che ammontano a circa 9 miliardi di euro all'anno, magari in base ai dati sulla crescita o all'andamento della disoccupazione. Fermo restando che l'interesse medio pagato sul debito all'Esm (il fondo salva-stati europeo) ha già subito un notevole sconto, scendendo dal 5% medio del 2010 all'1,5%.
 
Di certo non sarà una passeggiata ottenere tutti questi favori dall'Europa, pena il rischio di un grave precedente storico che possa "invogliare" tutti i paesi con un elevato debito pubblico (tra cui naturalmente l'Italia) a concordare una dilazione o peggio un "haircut" che equivarrebbe ad aumentare il rischio insolvenza e comprometterebbe il livello di fiducia e credibiltà, o nei casi più estremi provocare a catena uno sfaldamento dell'Unione Europea e della moneta unica.
 
Inoltre è necessario ricordare come oggi è "ripartito" il debito della Grecia: dei complessivi 330 miliardi il 72% sono "officials loans" ovvero crediti in mano ad Istituzioni pubbliche (60% della Ue tramite i fondi salva-stati Esm ed Efsf, e 12% dell'Fmi), il 5% sono altri prestiti, l'8% è in mano alla Bce, il 15% sono titoli così detti "marketable debt", che in gergo significa debito pubblico negoziato sul mercato secondario (in pratica i classici Titoli di Stato) divisi tra bond (11%) e bills, prestiti a breve termine (4%).
Da questi numeri bisogna partire per capire quali realmente sarebbero i primi paesi a "subire" la rivoluzione greca: la Germania detiene il 27% del fondo salva stati, a seguire la Francia con il 20%, l'Italia con il 18% e la Spagna con l'11,9%. Ci sono anche un pò dei nostri soldi in ballo, circa 40 miliardi di euro di prestiti erogati.
 
Siamo così sicuri di volervi rinunciare per salire sul carro del compagno Tsipras?
 
Foto: T. Ehrmann/Flickr

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