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La scienza sfida i social network

Recentemente avevamo già parlato di come identità, realtà e rete fossero tre variabili così strettamente correlate da risultare ambiguamente diluite le une nelle altre. Oggi proviamo ad alzare la posta scomodando neuroscienziati e ricercatori per scandagliare ulteriormente le profondità insondabili della presunta vacuità dei cittadini virtuali, i cosiddetti netizen.

Facebook rende la nostra mente infantile

La Baronessa Greenfield, professoressa di farmacologia sinaptica presso il Lincoln College di Oxford e direttrice del Royal Institute, ha ammonito la House of Lords britannica circa il potenziale degradante, a breve e lungo termine, che i social network hanno sul nostro cervello e sulla nostra mente. 
 
Secondo Greenfield le esperienze che gli adolescenti vivono sui social network “sono prive di coesione narrativa e di significati a lungo termine. Di conseguenza, le menti della metà del 21esimo secolo potrebbero risultare quasi infantili, caratterizzate da una breve soglia dell’attenzione, dal sensazionalismo, dall’inabilità ad empatizzare e da un instabile senso dell’identità”. A ciò si aggiunge che i cervelli calati in un mondo di rapidissime azioni e reazioni, assuefatti ad immagini che repentinamente appaiono su di uno schermo, potrebbero in seguito sviluppare disturbi nella concentrazione laddove, nel mondo reale, non si trovino di fronte ad una dialettica azione-reazione tanto istantanea. A sostegno della sua tesi, Greefield lancia un altro, insidioso amo: è possibile collegare “la quasi totale immersione della nostra cultura” in un mondo di schermi e tecnologia con il parallelo triplicarsi delle prescrizioni di metilpenidate (un farmaco che cura i disturbi legati alla conetrazione e all’iperattività)?

L’altra faccia del libro
Naturalmente le affermazioni di Greenfield non sono state prive di eco. Chris Davies, professore ad Oxford impegnato in ricerche governative nel campo delle applicazioni tecnologiche, sostiene che i dubbi sollevati da Grenfield siano “assolutamente legittimi e meritino una risposta, ma possibilmente non animate da uno spirito moralmente allarmistico”.
 
Davies allontana lo spauracchio dell’adolescente tutto monitor e tastiera, sottolineando il valore relazionale delle ore trascorse a scuola, ad esempio. Fermo restando che gli adolescenti fanno un uso intenso del computer, evidentemente esso non si limita unicamente al social networking, proficuo o degradante che sia. L’uso del computer e della rete, infatti, è legato ad altri ambiti della vita quotidiana, quali lo studio e l’intrattenimento, che non è necessariamente ottundente, in quanto offre la possibilità di cimentarsi direttamente con il video editing o di guardare semplicemente la Tv on demand, di comporre musica piuttosto che ascoltarla. “È chiaro”, continua Davies, “che gli adolescenti apprezzano la libertà, e la responsabilità, che deriva dal saper gestire queste fonti di comunicazione, intrattenimento e conoscenza”.
 
Ma a sollevare scandalizzati dubbi circa le teorie della Baronessa sono stati gli stessi utenti del Guardian.co.uk, testata che ha pubblicato l’articolo sull’intervento di Greenfield alla House of Lords. Tra questi mi ha colpito il commento lasciato da Adinfinitum, che sostiene: “Ad essere onesti le sue parole mi ricordano i timori di coloro che credevano che la televisione avrebbe trasformato le generazioni in zombie senza cervello …”. Timore che, ad essere onesti, potrebbe sembrare a tratti più che fondato.
 
La deriva identitaria
E se non proprio zombie senza cervello, chissà forse automi senza anima. Sempre secondo la neuroscienziata britannica, infatti, l’immediatezza dell’esperienza in rete, il trionfo del qui-e-ora e l’indifferenza verso ogni forma di conseguenza (dovuta alla consapevolezza che ogni esperienza è replicabile ed ogni errore ovviabile con un re-start) potrebbero comportare una graduale incapacità empatica nei social networkers. Di fatto, il progressivo schermarsi in modo consolatorio e rituale dietro conversazioni virtuali in cui ci si sente rassicurati, riconosciuti ed importanti (al riparo dai pericoli dell’imprevedibilità e della spontaneità delle conversazioni tridimensionali che ancora si tengono nella vita reale), potrebbe spingere i netizen verso una eventuale erosione della propria identità, verso un confine polveroso in cui il mondo reale e quello virtuale si alternano incontrollabilmente.
 
La realtà è morta (?)
Questo aspetto delle teorie della Baronessa Greefield mi riporta alla mente le teorie che l’inossidabile Baudrillard esprimeva nel suo Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?

Il critico francese, infatti, addirittura nega l’esistenza stessa della realtà e parla di “un modello di realtà” sgretolato dall’avvento delle nuove tecnologie, in cui il virtuale ha finito per assorbire il reale e dove tutto di fatto è realizzabile. Un modello virtuale che ha moltiplicato lo spazio rendendolo un non-luogo universale, e ha sottoposto il tempo ad una contrazione tale da frammentare il presente e ridurlo all’istante stesso in cui si realizza ogni determinata operazione. Una teoria che, in pratica, sviscera le caratteristiche di remissività ed immediatezza proprie della rete cui Greenfield ha dato risalto.
 
L’unica differenza, apparentemente, è che Baudrillard parlava riferendosi alla televisione. Secondo il critico, infatti,il passaggio, incontrovertibile, da una realtà reale ad una realtà virtuale è determinato in larga misura dalla pubblicità, intesa come volgarizzazione di un desiderio che tende ad una felicità irrealizzabile, vissuta illusoriamente come vera.
 
Ovviamente, però, non ci si riferisce unicamente alla pubblicità nominale, professionale, ma alla forma pubblicitaria, cioè a un modello “semplificato, seduttivo, consensuale”, estendibile ad una forma di comunicazione totale che trae paradossalmente origine dall’assenza di un qualsiasi messaggio o contenuto specifico. Facebook, praticamente. Dove spesso il self-marketing è la regola e la comunicazione in assenza di messaggio la sua puntuale applicazione.
Accontonando il sarcasmo e cercando di tirare le fila di un discorso tanto mellifluo e inafferrabile, si potrebbe concludere che, fortunatamente, così come ogni aspetto della vita - reale o virtuale che sia - la rete e i social network offrono infinite prospettive da cui è possibile coglierne luci ed ombre. Nella fattispecie, poi, la rete costituisce una “realtà” così sconfinata da poter consentire una convivenza, più o meno pacifica, tra modelli esperienziali che incentivano l’arricchimento dell’individuo e pantani virtuali che, al contrario, ne determinano la stasi e la regressione verso stadi infantili. E per quanto possa risultare spaventoso e innaturale anche solo parlare della possibilità di un simile processo di involuzione, l’aspetto ludico è proprio che ogni individuo nasce con il destino, scritto dalla natura e provato dalla scienza, di tornare bambino in vecchiaia. E a quanto pare la tecnologia tenterebbe solo di accelerarne il processo.

Commenti all'articolo

  • Di hypnotherapist (---.---.---.58) 1 marzo 2009 20:24

    penso che un articolo così condivisibile e scritto così bene non lo abbia mai letto.

    Quando la scienza ci viene in soccorso e ci mette in guardia dai possibili risvolti negativi della tecnologia credo che stia attuando una delle sue missioni: rendere migliore l’essere umano.

    come sempre, il rischio di inglobamento della personalità c’è.
    E’ tutta questione di "uso".

    E mi fermo qui!!

  • Di Jose (---.---.---.156) 1 marzo 2009 20:29

    E’ necessario fermarsi prima di tutto a riflettere su se stessi.. Quanto siamo capaci di leggere un libro senza l’ansia di finirlo? Quanto leggiamo i quotidiani? Quanto pensiamo?
    Attività frammentarie come la ricerca su Google o la pratica del self-marketing su Facebook possono avere ripercussioni sul nostro modo di agire nella vita reale e sulla nostra memoria. Questo mi sembra scontato.

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