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La riforma del mercato del lavoro mette in crisi il Pd: quale futuro tra dimissioni e veti?

La riforma del mercato del lavoro torna d'attualità (finalmente), inserita nel programma del governo Monti. E torna, puntuale, lo scontro al calor bianco nel Pd, con veti, controveti e richieste di dimissioni (sintesi qui). Il problema sta nel manico o meglio nel metodo, come spiega bene Civati.

La deflagrazione della polemica è la prova provata che la pratica attendista della segreteria del PD non funziona e non crea le condizioni sufficienti per diventare forza di governo, neanchè nell'epoca post berslusconiana (l'ho detto e incrocio le dita). Non dire niente, non assumere posizioni pubbliche chiare, non sposare una linea precisa -dalle riforme del lavoro ai diritti dei GLBT tanto per dire - può forse consentire di diventare il primo partito italiano, ma non di sapersi assumere la responsabilità di governo. 

La riforma del mercato del lavoro era una grande occasione per il Pd per dimostrare la sua capacità di essere una forza progressista, capace di difendere le forze nuove e deboli di questo paese, quei giovani e forti che costituiscono la risorsa principale della prossima Italia.

Invece per ragioni di taciuto ma evidentissimo tatticismo elettorale il PD ha considerato la riforma (e le sue indubbie problematiche) al pari di una bomba inesplosa, che non doveva essere toccata e sui cui rischi i cittadini non dovevano neppure esserer informati. Più che preoccuparsi della situazione insostenibile dei precari, il PD si è preoccupato di non entrare in contrasto con le posizioni della CGIL e di una parte consistente dei suoi iscritti, che indubbiamente non vede con simpatia la modifica dei contratti a tempo indeterminato.

Ma mentre il PD si dava da fare (a dire il vero inutilmente) per trovare un compromesso al proprio interno, gli squilibri sono cresciuti e sono diventati insostenibili nel mondo reale, causando danni economici insostenibili e tensioni sociali crescenti, di cui la punta dell'iceberg sono le manifestazioni di protesta del mondo giovanile. E si è dovuto chiamare il Monti-Robot per provare a disinnescare, non si sa ancora come, questa bomba il cui potenziale distruttivo cresce al passare dei giorni.

Allora, verrebbe da dire, qual'è il problema? Il problema è che il Pd, su questo argomento e per anni, non è stato il PD. Non è stato il partito pluralista e partecipativo che dichiara di essere nel suo Statuto. Perchè la riforma del mercato del lavoro andava affrontata in tutt'alto modo, in primo luogo informando correttamente iscritti e simpatizzanti, nonchè i cittadini tutti, dell'entità del problema del precariato, in termini sociali ed economici. Con una grande campagna di sensibilizzazione, ricordando a tutti tutto ciò che i governi Berlusconi hanno fatto e soprattutto non fatto per risolvere la situazione.

Poi bisognava pubblicamente riconoscere l'esistenza di proposte di riforma radicalmente alternative, che potremmo sintetizzare nella proposte Fassina e Ichino, nel cui mezzo potremmo collocare Boeri, anche se più vicino al giuslavorista che al resposabile dell'economia. Una ammissione che presupponeva la capacità di discussione aperta all'interno del partito, concepito come luogo di dibattito e formazione di idee e non come terreno di scontro tra fazioni sempre pregiudizialmente orientate (i cattolici contro i laci, i sindacalisti contro i liberisti, ecc...).

Se il Pd avesse fatto il Pd, allora avrebbe mobilitato su un tema così delicato tutti i propri iscritti e simpatizzanti, utilizzando il metodo delle assemblee, mettendo all'ordine del giorno le proposte di riforma alternative presenti sul campo. Per raccogliere le voci, i pareri, i suggerimenti, i desiderata e le doglianze. Consapevole che su un tema di tale rilevanza culturale, economica e sociale non si può procedere secondo un metodo gerarchico in vecchio stile prima repubblica, con decisioni prese da un gruppo ristretto e calate dall'alto. Specie se il gruppo ristretto è ulteriormente ristretto, perché la proposta Fassina-Damiano non è così larga neppure nella Direzione nazionale.

Alla fine, ma questa è una mia fissa e una mia utopica speranza, si poteva anche pensare di fare un referendum deliberativo, previsto dallo Statuto del partito. Non per contarsi, ma per fare contare. Per fare decidere ad iscritti e simpatizzanti quale sarà il nuovo orientamento del partito su un tema tanto rilevante per mille ragioni. 
Ma tutto ciò non si è fatto, tutto si è messo a tacere, si è nascosto, si è trattato in riservata sede. Tranne rare eccezioni, come nel caso di Civati, Scalfarotto, Ichino, Renzi, che per altro hanno posizioni anche diverse sul tema, ma che l'argomento l'hanno affrontato e messo sui tavoli di discussione e di incontro. 

Per gli altri, spiace dirlo, la miccia è finita e la bomba esplode. A meno che non ci salvi il Monti Robot. 













 

 

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