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La riforma Gelmini ed i limiti delle attività dello Stato

La riforma Gelmini fornisce uno spunto di discussione sui limiti propri che deve avere l’azione dello Stato per assicurasene l’efficacia e l’incisività. Non è un problema da poco, quello della sfera delle competenze statali: qualcuno la vorrebbe espansa fino all’inverosimile, qualcuno altro ridotta al lumicino ed essa varia ampiamente sia geograficamente sia, a parità di luogo, nel tempo.

In effetti la legge di riforma degli Atenei approvato dalle Camere appare marginale rispetto ai tanti problemi dell’istruzione universitaria perché non incide sul tipo di governance preesistente (fondata su una dicotomia fra Senato Accademico e Consiglio di Amministrazione e, soprattutto, su una pletorica, universalistica funzione di controllo esercitata dai più disparati soggetti, ivi compresi gli stessi studenti, con rigida esclusione dei veri interessati), ma anzi la rafforza e la esaspera ulteriormente.

La domanda da porsi è la seguente: tutto ciò rientra in quelle che sono le corrette competenze statali ?

Proviamo a capirlo procedendo per analogia in altri campi soggetti all’intervento della Mano Pubblica statale. E’ di tutta evidenza che nessun altro soggetto può tenere meglio dello Stato i registri dello Stato Civile e rilasciare i relativi certificati. Anche per le patenti di guida è la stessa cosa, ma nessun cittadino può essere costretto ope legis a guidare l’autovettura con un certo stile piuttosto che con un altro: l’unica cosa che gli si richiede per il rilascio della patente di guida è che sappia guidare senza costituire un pericolo per sé e per gli altri. Se passiamo ad un fatto più complesso, come ad esempio l’affitto di una unità abitativa, le cose si complicano: nel nostro Paese vige una disciplina che spesso e volentieri si risolve nell’impossibilità per il proprietario di ricevere un congruo numero di canoni dovuti, e ciò perché lo Stato interviene alterando di fatto i meccanismi del libero mercato.

Come vedete può succedere che la sfera di competenza statale si amplifichi oltremisura e che, quando lo fa a torto, crei guai.

Ma può accadere anche l’opposto: per decenni nel nostro Paese le Forze dell’Ordine sono state impotenti davanti ai fenomeni della criminalità organizzata, sino a sconsigliare ai cittadini di opporsi ad esse (e su questo punto il vostro cronista, siciliano di nascita e di residenza, ha piena conoscenza).

Torniamo alla governance delle Università. Il nodo irrisolto attorno a cui si avvolge e si riavvolge la riforma Gelmini è quello della valutazione dell’esito dell’attività degli Atenei, da riportare sempre al valore legale dei diplomi di Scuola Media Superiore e dei titoli universitari  nell’accesso al mondo del lavoro (se ci pensate, è proprio questa la differenza rispetto alle Scuole Medie Inferiori, che non hanno alcun collegamento con il mondo del lavoro e, per questo motivo, non creano questo problema).

Non è il mercato a stabilire con le sue leggi il valore di questi titoli di istruzione superiore, ma una astratta norma di legge, come se si trattasse di una patente di guida.

Su questo punto, alcuni decenni orsono, è intervenuto anche l’attuale senatore a vita Giulio Andreotti, il quale si ricorderà certamente (anche se di anni ne sono passati proprio tanti) di essersi espresso per il mantenimento del valore legale dei titoli di studio per non vanificare gli investimenti economici sostenuti da tante famiglie per ottenerli per i propri figli; con ciò apertamente confermando la sostanziale ingiustizia del sistema in questione perché avulso dalla valutazione che conta, quella della società civile, del mondo della produzione e delle professioni.

A questo punto diventa senza punti di riferimento quello che dovrebbe essere il core business degli Atenei, ossia la formazione della classe dirigente delle attività economiche e professionali della Nazione. Ed allora ecco l’incredibile dicotomia di Senato Accademico e di Consiglio di Amministrazione, ecco i tanti deus ex machina chiamati ad intervenire ed a valutare, ecco, persino, gli studenti/utenti divenuti amministratori.

Sul primo punto occorre dire che non esistono in natura soggetti con due organi decisionali, ossia con più di una testa; così come non esistono nelle varie forme di attività economiche societarie soggetti guidati contemporaneamente da due differenti Organismi Decisionali, ossia ad esempio da due Consigli di Amministrazione. In passato i mostri a più teste li abbiamo avuti solamente nelle mitologie. Orbene, oggi abbiamo le Università, dove chi si occupa di didattica e di ricerca non si deve minimamente occupare dell’utilizzo dei soldi che servono per fare didattica e per fare ricerca e viceversa. E se poi qualcuno dimostrasse per assurdo che questa separazione è la scelta migliore, con quale congruenza si mette a capo dei due organismi la stessa persona, ovvero il Rettore? Sarebbe il caso che si cominciasse a dire apertis verbis  cosa sinora è realmente accaduto nei nostri Atenei: tutte le decisioni sono state concentrate di fatto in maniera assoluta nel Rettore ed i componenti del Senato Accademico e dei Consigli di Amministrazione, sovente nominati da soggetti che con l’istruzione universitaria non hanno nulla a che spartire, nell’inaccettabile ruolo di avallanti di decisioni sovente a loro estranee. Con i risultati sul prodotto finale dell’azienda ben noti a tutti.

In conclusione la risposta alla domanda posta sembra essere negativa. Solamente un percorso di avvicinamento al mondo anglosassone, che del valore legale dei titoli di studio non conosce neppure l’esistenza, potrebbe riportare all’efficienza il nostro sistema universitario. E che questo non dia sturo a fiumi di lacrime dei giovani perchè costretti ad un maggiore impegno personale (e non familistico) nelle loro attività.

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