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La politica dei tagli: verso quale welfare?

Crescono i bisogni dei cittadini, si riducono i finanziamenti sociali. E a Bologna e provincia?
 
Nelle stanze del potere si sta smantellando lo stato sociale, senza riflettere su un nuovo modello condiviso con la cittadinanza e con gli operatori sociali, né considerando i posti di lavoro a rischio e le conseguenze dei tagli sulla società civile. Educatori, parte della società civile e dipendenti pubblici si stanno, quindi, mobilitando per rendersi maggiorente visibili e protestare contro una politica calata dall’alto. In questo articolo abbiamo raccolto le loro voci e gli interventi sul tema di alcuni personaggi istituzionali durante seminari e assemblee organizzate a Bologna tra gennaio e febbraio 2011.

Che cosa sta accadendo alle politiche sociali?
Durante il seminario La riforma del Welfare: le proposte di Visionville (www.visionville.it) dell’8 febbraio 2011, è intervenuta Anna Soci, ordinario di Economia politica all’Università di Bologna, spiegando che i tagli attuati dal governo non sono solo il frutto di scelte politiche.

La professoressa ha illustrato il problema strutturale che esiste a monte. Le entrate sono diminuite a causa della disoccupazione e dell’incremento dei lavoratori in cassa integrazione. Le uscite invece aumentano per il prolungamento della longevità degli italiani e per il tasso di natalità ancora basso.

Giuliano Barigazzi, assessore provinciale a Sanità, Servizi sociali, Associazionismo e Volontariato, nella stessa occasione pubblica ha affermato che esiste un sistema di concause che ha generato la crisi del welfare. Partendo da quella fiscale, ha spiegato che la crisi economica ha generato un aumento dei bisogni dei cittadini, i quali, tuttavia, hanno continuato a considerare lo stato assistenzialista e, contemporaneamente, è avvenuto uno scollamento tra Stato e cittadino.

Il centrosinistra bolognese afferma di non approvare le scelte politiche in materia di servizi alla persona: «L’obiettivo è il mantenimento del nostro sistema di welfare come tutela delle persone, a partire da quelle più deboli, attraverso necessari processi di riorganizzazione, limitando in questo modo la riduzione dei servizi alle famiglie» si legge in un comunicato stampa del Pd del febbraio 2011. Tuttavia, questa riorganizzazione di cui si parla sta avvenendo senza aver condiviso il modello e le scelte con le parti sociali interessate, sindacati e cooperative sociali che da anni gestiscono in appalto tali servizi.
Così è accaduto, per esempio, nel Distretto di Casalecchio di Reno, del quale fanno parte nove Comuni della provincia bolognese (Bazzano, Casalecchio di Reno, Castello di Serravalle, Crespellano, Monte San Pietro, Monteveglio, Sasso Marconi, Savigno, Zola Predosa): nell’area è stato previsto un taglio di circa 1 milione e 500 mila euro per lo stesso 2011, con una ricaduta, in particolare, sui progetti di prevenzione al disagio sociale e sostegno ai disabili a scuola; 18 mila ore in meno solo sugli interventi educativi scolastici, circa due ore in meno settimanali per fruitore e un esubero di circa venti operatori sociali a tempo pieno.

Quali sono e saranno le conseguenze di queste scelte?
Con il nuovo modello di welfare che si prospetta sembra decadere il principio di inclusione sociale. La scuola non ha fondi per aumentare le ore degli insegnanti di sostegno, gli educatori ne avranno meno e le famiglia potrebbero essere meno incentivate a far proseguire gli studi ai propri figli con difficoltà, come ci dice Simone Raffaelli, educatore della cooperativa sociale Libertas Assistenza e delegato Cgil: «Sono stati attuati massicci tagli anche sui servizi di assistenza domiciliare per anziani: gli operatori si trovano costretti a dover fare in dieci minuti quello che prima facevano in mezz’ora, perciò il loro lavoro è sempre meno di relazione e sempre più automatico, per non parlare delle situazioni che rimarranno senza copertura assistenziale». Alla relazione si privilegerà sempre più la mera assistenza, modello apparentemente superato da tempo.

Raffaelli prosegue: «Se in una città come Bologna si istituisce una tassa d’iscrizione per la scuola materna di circa un centinaio di euro, come si può pensare di offrire un servizio realmente pubblico, con una disoccupazione in aumento fra i più giovani e migliaia di genitori in cassa integrazione? È un modo per disincentivare le iscrizioni, per riportare numerose donne al lavoro di cura verso i figli e la famiglia». Una scelta funzionale anche ai tagli al welfare: il genere femminile si farà così carico dei servizi non più garantiti dal pubblico.
Inoltre, come fanno notare molti educatori, venendo meno la prevenzione al disagio, in futuro aumenterà la spesa pubblica, oltre che gli atti vandalici e di microcriminalità, che in età adulta spesso si traducono in macrocriminalità. Si dovranno sostenere ingenti costi per l’emergenza, per inserimenti di minori in comunità sempre più numerose, col rischio ultimo di tornare agli istituti, aboliti grazie alla legge n. 149/2001 (la chiusura era prevista entro la fine del 2006).


Evidentemente ci sarà anche una ricaduta sugli operatori sociali che, per esigenze economiche, saranno costretti a cambiare lavoro o a integrare il calo di ore lavorative con un secondo impiego. Un maggiore turn-over degli stessi nuocerà alla qualità dei servizi.

Quali sono le proposte e le possibili soluzioni?
Raffaelli replica: «Non possiamo farci chiudere in una morsa tra il Governo che taglia e le amministrazioni locali che agiscono di conseguenza. Vogliamo vedere i bilanci, capire dove si può risparmiare, verificare se meno consulenze esterne e stipendi più contenuti tra i quadri dirigenziali possono garantire più diritti e più lavoro».

Mentre gli educatori della provincia di Bologna cercano di sensibilizzare la società civile, si moltiplicano le idee e i suggerimenti per superare la crisi dei servizi e quella, conseguente, delle cooperative sociali. Se c’è chi afferma che queste ultime dovrebbero cominciare a raccogliere fondi, insieme alle associazioni di volontariato attraverso varie attività sul territorio, c’è chi, come Barigazzi e Doriana Ballotti della Legacoop, sostiene che occorre ridefinire i livelli essenziali di assistenza e chiedere alle famiglie con un reddito medio-alto di pagare per i servizi di cui usufruiscono. Inoltre, l’assessore insiste sul concetto di sussidiarietà e sulla necessità che lo Stato, l’ente pubblico, non funga più da dirigente, bensì da arbitro e gestore dei servizi, in stretto accordo con il terzo settore e il privato. La professoressa Soci propone invece un modello di welfare nordico, con uno stato investitore, che privilegi e garantisca alle donne maggiori politiche a favore della conciliazione tra lavoro e vita familiare, il che significherebbe anche maggiori garanzie e tutela nei confronti dei minori.

Teorie e proposte obsolete? Che l’Italia non sia in grado o non voglia applicarle? Pensiamo al welfare nordico, per il quale gli scandinavi pagano ingenti tasse, e, al contrario, al modo con il quale nel nostro Paese sono stati perpetrati i tagli, passati quasi in sordina. Che il dibattito continui, riflettendo non sull’emergenza, bensì su progetti validi nel medio e lungo periodo…

L’immagine: la cima delle due torri più famose di Bologna, Asinelli e Garisenda, dal sito della Provincia di Bologna (www.bolognaprovincia.it).

Francesca Gavio

(LucidaMente, anno VI, n. 63, marzo 2011)
 

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