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La nuova stagione dei veleni di Palermo

La nuova stagione dei veleni di Palermo

Ha riaperto il teatro dei pupi. Ma il puparo chi è? In Sicilia si sta verificando una serie di eventi politici e giudiziari che ci proiettano al clima di alcuni decenni fa, alle stagioni dei veleni che travolsero procure, giunte regionali e comunali, apparati dello Stato negli anni a cavallo della stagione stragista.

Partiamo dalla non notizia, dal trappolone in cui è caduto il quotidiano La Repubblica. Come è stato possibile che giornalisti esperti e il principale quotidiano italiano siano caduti in un errore clamoroso come dare per buona una notizia, poi rivelatasi falsa, come la richiesta di arresto del governatore Raffaele Lombardo? E chi ha preparato questa polpetta avvelenata? E perché? Ovviamente dare una risposta a queste domande è, ora, impossibile. Di sicuro c’è stata una fonte, ritenuta credibile, che ha fornito un’indiscrezione dall’interno del palazzo di giustizia di Catania. Una fonte crediamo autorevole, probabilmente la stessa che aveva già dato la notizia un mese fa, sempre ai giornalisti di Repubblica, del dossier elaborato dai Ros dei Carabinieri che indicavano le presunte relazione di Lombardo, di suo fratello parlamentare e di un cospicuo numero di politici locali con alcuni esponenti della criminalità organizzata. Chi abbia armato la mano della fonte di cotanta bufala è per ora un mistero, ma se andiamo a vedere i risultati diretti del non scoop di Repubblica ci accorgiamo che non solo Raffaele Lombardo esce rafforzato dalla vicenda, ma che di conseguenza si rafforzano anche la componente finiana del Pdl e il Pd siciliano che ora sostengono il governo della Regione. Un po’ meno Miccichè nonostante anche lui appoggi l’inventore del Mpa. La sua vicinanza a Dell’Utri pesa troppo in questa fase, come pesa la guerra in corso all’interno del Pdl siciliano con l’area che fa riferimento a Schifani e Alfano. Quindi, se la fuga di notizie (o meglio di non notizie) voleva colpire Raffaele Lombardo il risultato finale è stato l’opposto. Di caduti, però, ce ne sono stati e parecchi, come ha scritto nei giorni scorsi Sebastiano Gulisano proprio in queste pagine. Dai due giornalisti e dal loro giornale alla procura di Catania dopo che è emersa la spaccatura interna e i conflitti fra procuratore e suoi pm, dall’informazione in generale a quella non dichiarata alleanza fra la vecchia Udc di Cuffaro e l’area Schifani del Pdl. E fin qui può bastare.

Ma è davvero tutto qui? Tutto si risolve in questa vicenda di “bufale”, mala informazione, soffiate pilotate? Oppure l’obiettivo vero è un altro? Per esempio Palermo. Si, Palermo, i suoi palazzi dei veleni, i poteri mai risolti o quantomeno svelati, le inchieste sulla stagione delle stragi, sugli intrecci fra politica e affari e mafia, sulla trattativa fra pezzi dello Stato e Cosa nostra e sugli equilibri innominabili che quella trattativa avrebbe creato. Non solo quindi il palazzo della Regione, le stanze dei poteri e degli affari impronunciabili su sanità, rifiuti, appalti. Il can can delle bufale e mezze bufale su Raffaele Lombardo, potentissimo catanese salito al trono dell’Ars potrebbe essere solo una battaglia periferica, quasi una scaramuccia per scoprire le carte sul tavolo. Chi sta con chi e perché. Ma la guerra potrebbe essere per altro. Per Palermo.

Perché a Palermo da poco più di un anno l’aria è cambiata. E il primo segnale arrivò immediatamente, con la polpetta avvelenata nel gennaio del 2009 diretta al procuratore Messineo. Quella fuga di notizie (anche qui con protagonista La Repubblica) sul presunto coinvolgimento in mezze storie di mafia di un parente acquisito del procuratore era solo l’inizio, il primo avviso di una guerra che si sta davvero iniziando a combattere in questi giorni.

Ripesco nell’archivio. Scrivevo all’epoca:

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A Palermo fa freddo. Anzi, c’è il gelo. Non è solo un fatto climatico, anche se fino a pochi giorni fa nevicava alle porte della città, ma è la bomba virtuale esplosa sulla testa del Procuratore capo Francesco Messineo cha ha fatto precipitare la temperatura di colpo. Un articolo pubblicato su La Repubblica ha ufficialmente riaperto la stagione dei veleni su uno degli uffici più delicati d’Italia. «Il cognato del Procuratore è un uomo d’onore», titolava venerdì 6 marzo il quotidiano. E oltre all’inverno prolungato di quest’anno a gelare le anticamere della Procura è sopraggiunta la memoria della “stagione dei veleni”, quella delle talpe e delle lettere anonime, quella dell’isolamento di alcuni magistrati, fra cui Giovanni Falcone, fra la fine degli anni Ottanta e l’estate delle stragi del Novantadue. Ovvio, il Csm apre subito un’inchiesta. Ovvio, i sostituti e i collaboratori di Messineo esprimono la propria solidarietà al capo. Il ministro Alfano sembra voler inviare un’ispezione immediata al palazzo di Giustizia di Palermo. Poi ci ripensa, gli ispettori rimangono a Roma. Si comincia a pensare se non a una bufala intera a una “mezza” bufala, a una polpetta avvelenata a cui qualche cronista forse ha abboccato. Certo che quel titolo rimane. La carriera del Procuratore di Palermo, dal 6 marzo, probabilmente è segnata. Cosa è accaduto? Qualcuno ha fatto pervenire alla stampa l’informazione che l’Arma dei carabinieri aveva intercettato due anni fa il cognato del Procuratore capo, Sergio Maria Sacco marito della sorella della moglie di Messineo, gettando l’ombra sul parente di concorso esterno a Cosa nostra. La vicenda era vecchia e archiviata, ma piove in forma di cronaca in questa gelida Palermo. Anche perché, si scopre dopo, Sacco non è stato neanche indagato per quella telefonata intercettata, e altre accuse dei decenni precedenti lo avevano visto assolto. Tutto a conoscenza anche del Csm da anni, appunto. Chi ha fatto la soffiata (che soffiata non è) alla stampa? Mistero. Sono stati i carabinieri, o meglio i Ros, con cui comunque Messineo ha costruito un rapporto esclusivo tenendo fuori dal gioco grosso, a volte, le forze di Polizia? Erano irritati che il loro primato sulle indagini a Palermo fosse messo in discussione dopo gli ultimi riassetti di nomine e promozioni i Procura? Oppure: la “gola profonda” va cercata nelle fila delle polizia di Stato, nell’ottica dello scontro ormai sempre più palese fra le due forze? O ancora, si tratta di un’ulteriore offensiva da parte di chi ha già decapitato le procure di Catanzaro e Salerno, come raccontano gli stessi pm di Palermo in un comunicato; la vicenda Sacco è «molto datata, già nota al Csm e valutata come irrilevante in occasione della nomina di Messineo a procuratore» e «non ha mai prodotto all’interno dell’ufficio riserve o limiti di alcun genere, anche per il ritrovato entusiasmo nel lavoro di gruppo, nella tradizione dello storico pool antimafia, e per l’effettiva gestione collegiale dell’ufficio». E poi, sempre secondo i Pm, la polpetta avvelenata viene servita in «coincidenza temporale col progredire di delicatissime indagini sulle relazioni esterne di Cosa Nostra». Qualcuno disse, decenni fa, «si sente tintinnare di sciabole». A farne le spese l’intero ambiente.

«Una volta per toglierci di mezzo ci ammazzavano – spiega un tagliente Roberto Scarpinato, storico pm del processo a Giulio Andreotti, a lato di un convegno – ora non ne hanno bisogno. Ci sono altri modi per ridurci al silenzio. Chissà, forse dovremmo esserne pure grati». Ci pensa un po’ su e chiede al suo collega Antonio Ingroia, sostituto procuratore, che gli siede accanto: «Come si chiamava quel ministro dei Lavori pubblici che diceva che dovevamo conviverci con la mafia?». Ingroia sorride: «Lunardi, credo fosse Lunardi». Conclude Scarpinato: «Ecco, si, forse dovremo imparare a conviverci con la mafia».

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Da quel momento in poi a Palermo, sia sul piano giudiziario che di conseguenza politico e non solo a livello locale di cose ne sono successe davvero tante. Prima di tutto l’arrivo delle rivelazioni di Massimo Ciancimino e di Gaspare Spatuzza che già da qualche mese stavano parlando e che da quel momento in poi presero “peso”. E poi. Il processo al generale/prefetto Mario Mori e l’appello a Marcello Dell’Utre il folle balletto mediatico che si è creato attorno a ogni battuta emersa nel dibattimento nel corso dei due processi. E ancora, la nomina recente di Roberto Scarpinato a Procuratore generale a Caltanissetta, dove in uno scenario di riapertura dei processi sulle stragi del biennio ‘92/93 si troverebbe a gestire uno dei nodi strategici in questa ricerca di verità che a diciotto anni di distanza non si è affatto affievolita nel Paese.

 

E ancora le catture di due latitanti di spicco, Raccuglia e Nicchi. Se il giovane palermitano è considerabile solo come un pericoloso emergente, Raccuglia invece al momento della cattura si è rilevato uomo al vertice dell’organizzazione criminale, pienamente operativo asse di collegamento fra la vecchia mafia militare di Riina e la nuova faccia di Cosa nostra sommersa ma non sconfitta, abile nel porsi come intermediario anche con altri sodalizi criminali come i Casalesi e la ‘ndrangheta. Raccuglia che al momento dell’arresto è stato trovato nella disponibilità di una arsenale impressionante che comprendeva anche dell’esplosivo. Tritolo destinato a chi? Che uno dei possibili obiettivi fosse il procuratore aggiunto Antonio Ingroia ormai non è un mistero. Come non è un mistero che fossero stati puntati a Caltanissetta quei magistrati che ascoltando Gaspare Spatuzza hanno riaperto le indagini sulla strage di via D’Amelio.

E ancora il ritorno collettivo e repentino di memoria di tanti smemorati sul periodo delle stragi: Martelli, Violante, Pietro Grasso, Ayala, Ferraro. Una folla di personaggi che di colpo sono guariti da un’epidemia di amnesia selettiva durata quasi due decenni. Ritornati ada vere il controllo dei propri ricordi tutti, meno uno. L’allora ministro degli interni e oggi vicepresidente del Csm Nicola Mancino.

In questo anno e mezzo sono successe un sacco di cose, come vedete, ma non basta. Andiamo a vedere ancora. Sempre nello stesso periodo in cui piovevano polpette avvelenate sul palazzo di giustizia di Palermo era iniziato il linciaggio mediatico di Gioacchino Genchi, vice questore della polizia di Stato, consulente delle procure di mezza Italia (compresa Palermo), uomo chiave nelle indagini sulla strage di via D’Amelio e sui depistaggi di quella di Capaci e anche parafulmine (in realtà non riuscì a “parare” nulla e si trovò nella bufera insieme a tanti altri) delle inchieste condotte da Luigi De Magistris a Ctanzaro (Why not, Poseidon, Toghe Lucane).

Sempre dall’archivio:

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A Palermo si gela. Fa freddo anche a piazza Principe di Camporeale cercando il sotterraneo sede dello studio di Giocchino Genchi, che da investigatore della polizia, prima, e consulente in quasi tutte le principali inchieste “di punta” delle procure italiane, poi, è diventato, nel giro di poche settimane, il nemico numero uno della democrazia italiana. L’uomo che avrebbe confezionato dossier, secondo alcuni politici e la stampa nazionale, su milioni di italiani. «Ma quali milioni di utenze tracciate, erano poco più di settecento e riconducibili a poche decine di persone». Un po’ “gattone” del Numero uno della Spectre e un po’ hacker da film cyberpunk. C’è da rabbrividire a cercare un incontro con un uomo del genere. Poi, l’immagine mediatica costruita attorno al personaggio comincia a mostrare le prime crepe. Sempre Repubblica, a firma Giuseppe D’Avanzo, ne fa un ritratto romanzesco, tanto fantasioso da trasformare un piano terra luminoso con tanto di vista su aranci carichi di frutti in un sotterraneo oscuro, tanto letterario da moltiplicare un computer con due schermi – anche un po’ vecchiotto visto che si “impalla” almeno una volta durante l’incontro – in cinque mega elaboratori sempre all’opera a macinare dati sugli italici vizi. Quasi ci si domanda se si è nello stesso luogo e davanti alla stessa persona descritti dalla pregevolissima firma del quotidiano romano. E certo a Genchi non è difficile incontrarlo, parlarci, prendere un appuntamento. Dal suo blog a Face Book, dai convegni alle Procure di mezza Italia, di contatti Genchi ne ha lasciati davvero tanti.

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Ancora La Repubblica. Ma è un’ossessione.

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Passi la letteratura, si sorvoli sulla fiction, tolti i risvolti romanzeschi il personaggio rimane. Francesco Rutelli, presidente del Copasir, il comitato di controllo dei servizi, non lo ha certo in simpatia e infatti dichiara: «L’acquisizione di dati che riguardano centinaia di migliaia di cittadini, il tracciamento per 20 mesi degli spostamenti del capo dei servizi segreti italiani (Nicolò Pollari, direttore del Sismi fino al 15 dicembre 2006), l’ottenimento dei tabulati del capo della investigazione contro la mafia (all’insaputa dello stesso pubblico ministero che conduceva le indagini) sono alcuni tra i principali elementi dirompenti che abbiamo accertato e che meritano una riflessione molto severa». E di sicuro rappresenta il nemico numero uno anche per i Ros, con cui si scontra periodicamente dai tempi in cui, commissario di pubblica sicurezza a Palermo, si occupò dell’attentato dell’Addaura (1989) a Giovanni Falcone. «Da subito ci furono dei sospetti – racconta -. Sospetti che si materializzarono nel 1992 al momento in cui fu riferito ai magistrati di Caltanissetta da un maresciallo dei carabinieri, artificiere, che il congegno esplosivo era stato consegnato a un funzionario di polizia che era presente sul posto. Immediatamente con La Barbera svolgemmo degli accertamenti che riguardavano questo funzionario di polizia che già era, per la verità, indicato per la sua amicizia con Contrada e altri rapporti sospetti a Palermo. Alla fine dell’accertamento ci accorgemmo che questi non avrebbe mai potuto ricevere l’ordigno perché al momento si trovava in tutt’altra sede. La bomba, invece, venne maldestramente fatta brillare impedendo di conseguenza di stabilire con chiarezza se si fosse trattato di un vero attentato fallito o di una intimidazione. Questo maresciallo dei carabiniere in questione è stato condannato per false dichiarazioni al pubblico ministero».

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L’Addaura. Anche qui la Repubblica pochi giorni fa, con l’inchiesta giornalistica a firma di Attilio Bolzoni, ha riaperto scenari inediti. E quella vicenda di 21 anni fa è tornata di colpo d’attualità.

E poi, di colpo, la notizia di ieri (tenuta in secondo piano ma dirompente nello scenario palermitano e non solo) dell’azzeramento da parte del Consiglio di Stato della nomina a procuratore aggiunto di Antonio Ingroia a più di un anno dalla sua nomina. E si riapre di colpo uno scenario che speravamo non vedersi ripetere. Lo stesso, non simile ma identico, che vide Giovanni Falcone stritolato alla fine degli anni ’80, dopo l’istruzione del maxi processo, isolato, costretto di fatto a lasciare Palermo e a trovarsi un posto al ministero di Via Arenula. Una decisione del genere di fatto depotenzia un anno e mezzo di azione da parte del gruppo di magistrati che ha di fatto riaperto il fronte del lavoro lasciato in gran parte “sospeso” a mezz’aria dopo il processo Andreotti, ovvero il progressivo disvelamento degli intrecci fra politica, pezzi egli apparati e Cosa nostra nell’ascesa di Riina prima e nella fase di immersione dopo la fase stragista.

Stesso clima, stessi volti in molti casi. E un nuovo allarme. E andando a rivedere tutto lo scenario senza concentrasi solo sulle “mezze bufale” catanesi ci rendiamo conto, alla fine, che la guerra è un’altra da quella che apparentemente ha al centro Raffaele Lombardo e il suo progetto di neo-milazzismo (a prescindere da che cose se ne pensi al riguardo) e che invece il conflitto è lo stesso, identico, di vent’anni fa.

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