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La mostra ‘Manet. Ritorno a Venezia’ a palazzo Ducale

A 130 anni dalla morte dell’artista, la mostra veneziana, visitabile fino al 18 agosto negli appartamenti del Doge di Palazzo Ducale, nasce dalla collaborazione tra il Musèe D’Orsay di Parigi e la Fondazione Musei Civici di Venezia, con lo scopo di presentare per la prima volta in Italia una rassegna di alto profilo scientifico sul grande pittore francese (23 gennaio 1832-30 aprile 1883). Il taglio critico dell’esposizione, comprendente un’ottantina di opere tra quadri, dipinti ed incisioni, punta ad indagare l’anima italiana di Manet, sottolineando come la cultura del Rinascimento Veneto sia stata la prima fonte d’ispirazione e dimostrando quanta modernità portò nella sua pittura l’antico spirito dei maestri veneziani e fiorentini.

Il percorso espositivo si articola in 9 sezioni che ripercorrono la vicenda creativa di Manet, amato dagli Impressionisti, ma da loro sempre distante sul piano stilistico e compositivo. La sala forse più stupefacente che potrebbe far mozzare il fiato di uno spettatore impreparato, è senza dubbio la seconda. In essa, si trovano l’uno accanto all’altro due grandi olii su tela: la ‘Venere di Urbino’ di Tiziano, prestato dalla Galleria degli Uffizi di Firenze e ‘l’Olympia’, proprietà del Musee d’Orsay. Venuto in Italia tre volte, nel suo secondo soggiorno a Firenze nel 1857, Manet esegue una copia della Venere. Su di essa riflette, lavora – e la mostra veneziana ne espone vari schizzi – e piano piano la assimila. Sei anni dopo, questo processo creativo darà vita ad ‘Olympia’, poi presentata al Salon del 1865, dove si griderà allo scandalo e si scateneranno dibatti accesissimi. Giulia, raffigurata nel dipinto nuziale di Tiziano nel 1538, emana una grande forza erotica, per la schiettezza nell’espressione e per l’immediatezza quotidiana. Nel quadro, oltre alla protagonista, compaiono due ancelle che sistemano la biancheria nuziale ed un grazioso cagnolino, simbolo di fedeltà, tranquillamente assopito nel letto, ai piedi della sposa. Manet, 325 anni dopo, reinterpreta l’opera con sfrontatezza.

Sostituisce la figura della Venere con quella di una ‘femme de plaisir’, interpretata dalla sua modella preferita Victorina Meurent, un fiore sui capelli e un nastrino nero al collo. Ma anche se le due tele hanno molti punti in comune, il senso che esse comunicano è assai diverso. Mentre la Venere di Tiziano trasmette un languore erotico denso di promesse, una tensione positiva in chi la guarda, lo sguardo di Olympia sembra squadrare senza interesse l’osservatore. Proseguendo il confronto tra le tele, in quella francese scompaiono le ancelle, sostituite da una serva nera, sessualmente pericolosa, che porta il bouquet di un probabile ammiratore. Il cane tizianesco viene sostituito da un gatto nero, simbolo demoniaco, con la coda sollevata, forse a segnalare l’arrivo dell’uomo. La luce, calda e diffusa in Venere, diventa fredda e cruda in Olympia. La mano sinistra sul pube assomiglia a un tocco morbido in Venere, a un brusco coprirsi in Olympia. Le pantofole di Olympia, infine, sembrano voler dire che questa donna, lucidamente provocante, può attirare o respingere secondo il suo umore e piacere.

Di notevole interesse, è anche la terza sezione, dove si ammirano nature morte come ‘Ramo di peonie bianche e forbici’, ‘Anguilla e triglia’, ‘L’asparago’, ‘Il limone’. Pur prediligendo la pittura di storie, con figure e composizioni articolate, Manet realizza un gran numero di nature morte come mezzo efficace per garantirsi un po’ di consenso di critica. Dietro alla fedeltà ai dipinti olandesi, esse riservano molte sorprese che non solo rimandano alla tradizione nordica, ma sembrano anche ispirarsi a un vigore cromatico e costruttivo tutto italiano.

Oltre alla relazione con la pittura di Tiziano, la mostra dà modo di riflettere su altre possibili influenze di pittori italiani su Manet, alcune forse un po’ provocatorie. È il caso di Antonello da Messina, il cui ‘Cristo sostenuto dagli angeli’ del 1475 si confronta con ‘ Le Christ aux anges’ del 1864, oppure di Lorenzo Lotto, il cui ‘Ritratto di gentiluomo’ del 1530 dialoga con il ‘Ritratto di Emile Zola’ del 1868.

L’unico rimpianto, tra i tanti lavori originali presenti in mostra, è l’assenza del ‘Dejeuner sur l’herbe’ (1863). Poiché per lascito la tela non può lasciare Parigi e la Gare d’Orsay, il curatore Stephane Guegan, assieme a Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia e Guy Cogeval, presidente dei Musei d’Orsay e dell’Orangerie di Parigi si sono dovuti accontentare di esporre una copia più piccola eseguita da Manet per un amico, conservata nella Cortauld Gallery di Londra.

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