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La "controriforma" dell’articolo 18: uno Tsunami

Sanzionare un licenziamento ingiusto con il solo risarcimento danni significa:

  • un degrado socio culturale;
  • scuotere le fondamenta della Costituzione;
  • distruggere la libertà sindacale;
  • la fine della coesione sociale:
  • collocare la nostra competitività sul binario dei bassi salari e dei bassi prezzi.

La Controriforma

La riforma del licenziamento individuale presenta varie forme: licenziamento discriminatorio, disciplinare, economico. Un complesso di problematiche che raggiungono l’apice nel licenziamento economico ingiusto, per il quale non è previsto il reintegro, ma solo un indennizzo dalle 15 alle 27 mensilità.

 Per la Confindustria il nodo del problema è il licenziamento giusto, che l’impresa ha difficoltà di far valere, per la propensione dei giudici a favorire i lavoratori. Ma se è questo il problema,allora è una questione di giurisdizione e non di tutela del lavoro. E’una competenza del Ministero della Giustizia, ma non del ministero del lavoro.

Ma il nodo del problema della riforma dell’articolo 18 non è il licenziamento giusto, ma il favore normativo per il licenziamento ingiusto, non giustificato da ragioni vere, univoche e non contraddittorie o comunque sufficienti; non è la sua sanzionabilità garantita dal risarcimento, ma l'intangibilità di un atto illegittimo, la sua sopravvivenza dopo un accertamento giudiziario.

E questo favore per l’impresa è, per il lavoratore, una via crucis che inizia con la normativa prevista per il preavviso. Basta una lettera, una comunicazione in cui, se non richiesti dal lavoratore entro 15 giorni, non devono neanche essere spiegati i motivi. Per il licenziamento senza forma scritta è preclusa la possibilità di esercitare il diritto di difesa prevista dall’art 7 dello Statuto dei lavoratori.

La via crucis continua con l’inversione dell’onere della prova, per l’abuso di un licenziamento economico utilizzato per fini discriminatori. Spetta al lavoratore provare l’abuso, e non al datore di lavoro.

Tutto ciò è contro ogni logica giuridica. Chi abusa deve provare la sua innocenza. Non spetta certamente al danneggiato, provare le colpe altrui.

E’ certamente giusto un licenziamento supportato da ragioni economiche, legate alla sopravvivenza e al reddito dell’azienda. Ma è giusto il licenziamento dell’impresa non per necessità di reddito ma per guadagnare di più? E d’altra parte una specifica normativa di ciò che è ragione economica, e di ciò che non lo è, si rende più che mai necessaria.

Per licenziamenti disciplinari occorre rilevare che una cosa è una graduazione della sanzione ex lege, altra cosa è graduazione della sanzione affidata alla discrezionalità del giudice. Una cosa è la certezza che al licenziamento ingiusto segue l’ordine di reintegro, altra cosa è la possibilità che ciò avvenga. Insomma non è possibile sancire, sia pure garantita dal giudice, la possibilità di sopravvivenza di un atto illegittimo.

La stessa tipizzazione delle forme del licenziamento individuale costituisce una riduzione delle fattispecie di licenziamento illegittimo e una graduazione delle sue sanzioni. Le forme di licenziamento individuate non esauriscono tutte le ipotesi di licenziamento ingiusto. Qual è la giustezza di un licenziamento che colpisce un soggetto vecchio e salva un soggetto giovane perché il vecchio costa di più? Qual è la giustezza di un licenziamento ingiurioso? Qual è la giustezza di un licenziamento fatto subito prima del rinnovo di un contratto?

Insomma circoscrivere le ipotesi di abuso e di licenziamento significa non tener conto del fatto che la giustezza e l’abuso si rapportano a tutte le articolazioni della discrezionalità dell’imprenditore, e quindi alla scelta del soggetto da licenziare, ai tempi e alle modalità del licenziamento.

E allora il problema non è solo l’abuso ma la sopravvivenza e l’operatività di un provvedimento non discriminatorio, ma senza motivazioni, con false motivazioni o con motivazioni contraddittorie o insufficienti.

Il problema è la monetizzazione di un licenziamento ingiusto. Il problema è la lesione della dignità di un licenziamento ingiusto.

Il degrado

La riforma dell’art 18 è uno schiaffo alla nostra storia, alla nostra cultura, alla nostra civiltà giuridica. E' un atto che ci riporta indietro nel tempo, quando il lavoro era una merce.

E questa propensione ideologica prefascista si avverte anche nel titolo della riforma: ” il mercato del lavoro" che evoca un rapporto merceologico e non un rapporto in cui il lavoro svolge un ruolo importante per la dignità della persona.

Ma tant’è, e niente di diverso c’era da attendersi da un'impostazione normativa squilibrata che, nel bilanciamento tra il diritto al lavoro e la recedibilità da un rapporto privato, propende per la recedibilità.

Nella riforma operano tre soggetti: l’imprenditore, lo Stato, il lavoratore. Quali i riflessi della riforma su questi soggetti?

Sottrarre il reddito ad una famiglia, strappare una persona alla sua attività con un atto immotivato, accertato come ingiusto, è un atto di prepotenza dell’imprenditore.

Perdere posto di lavoro con un atto immotivato, accertato come ingiusto, significa, per il lavoratore, perdere la dignità di far valere le proprie ragioni, quando ha ragione e per questo subire un atto di umiliazione. 

Il lavoratore si sente indifeso, avverte un senso di impotenza e di frustrazione che nessuna somma gli potrà restituire. Viceversa l’imprenditore avverte un senso di onnipotenza, certamente non lenito dal sacrificio economico, ma esaltato. Chi ha i soldi si può permettere tutto.

Chiedere alla giurisdizione di ratificare questa disuguaglianza è un atto estraneo al nostro ordinamento giuridico, che peraltro riconosce il ruolo centrale che riveste il lavoro per la dignità umana. Se l’imprenditore, con il licenziamento ingiusto, non rispetta la dignità umana deve essere messo nelle condizioni di rispettarla. E ciò non può avvenire con un a somma di danaro, ma con l’annullamento dell’atto che ha dato luogo alla violazione e quindi con il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro.

Un licenziamento senza giusta causa è un atto nullo dall’origine, del quale la giurisprudenza annulla tutti gli effetti successivi, come la perdita del posto di lavoro. Chiedere alla giurisdizione di ratificare la sopravvivenza di un atto illegittimo è in contrasto con la nostra civiltà giuridica.

La fine della coesione sociale

La coesione sociale è un bene prezioso per le imprese poiché consente di lavorare in tranquillità senza interruzioni per scioperi.

Erano tutti d’accordo sul modello tedesco. Monti ha alzato l’asticella e buttato all’aria un accordo all’insegna della concertazione; con ciò ha segnato la fine della coesione sociale. Il Governo, sin dal suo insediamento, ha rifiutato una modalità della trattativa per la quale sindacati e Governo si rendono disponibili a rinunciare a qualcosa in nome dell’interesse generale. Per il Governo il sindacato è stato ed è solo un consulente. Eppure la concertazione ha tenuto insieme il Paese in momenti critici, ha consentito a Ciampi e Prodi di portarci in Europa superando una situazione di crisi veramente difficile.

In questa logica i sindacati avevano accettato la riforma delle pensioni, con solo tre ore di sciopero. Ora il governo agirà come riterrà più opportuno a prescindere dalla volontà dei lavoratori e i lavoratori perseguiranno i loro interessi e non si faranno carico degli interessi generali.

"E’ la fine dei veti", ha detto qualche giornalista, entusiasta per una rottura che impedirà al governo e alle imprese di programmare qualsiasi cosa, che porterà al conflitto sociale a cui i mercati non saranno insensibili. Un conflitto che marchierà l’Italia come nazione a rischio politico, che non potrà non avere ripercussioni anche sullo spread, unitamente alla perdita di ore di lavoro che ci faranno sprofondare nella crisi da cui ancora non siamo usciti.

La Costituzione sconvolta 

La riforma dell’articolo 18 scuote le fondamenta della nostra Costituzione, segna la fine del principio per il quale la Repubblica è fondata sul lavoro e lo sostituisce con quello per cui la Repubblica è fondata sulle compatibilità del capitale.

L’art 1 della Costituzione stabilisce che l’Italia è un Repubblica fondata sul lavoro. Ciò significa che l’impresa è al servizio del lavoratore dipendente e del lavoratore imprenditore. L’impresa serve ad assicurare un reddito dignitoso al lavoratore e all’imprenditore (art 36 della Cost.). L’attività d’impresa non può svolgersi in modo da arrecare danno alla dignità del lavoratore (art 41 della Cost.).

Il modello Fornero rovescia questa impostazione e pone il lavoratore dipendente e quello imprenditore al servizio dell’impresa. Secondo questa impostazione le esigenze imprenditoriali legittimano ogni lesione di dignità

Articolo 41 della Costituzione:

L’iniziativa economica privata è libera e non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza e la dignità umana, la legge determina i programmi e controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere realizzata e coordinata fini sociali

E’ questa una norma che fissa un equilibrio tra la libertà d’impresa e la dignità, la sicurezza del lavoratore.

Il licenziamento ingiusto lede la dignità umana e quindi altera l’equilibrio dell’attività d’impresa, così come fissato dall’articolo 41 della Costituzione. Il reintegro per un licenziamento ingiusto ripristina quell’equilibrio delineato dall’art 41.

Il risarcimento per un licenziamento ingiusto non ripristina l’attività d’ impresa così come delineata dall’art 41, non incide sulla deformazione dell’attività di impresa, ma la lascia nel suo status di alterazione. Un’attività che viola la dignità umana non può trasformarsi, con il pagamento di una somma di danaro, in un’attività rispettosa di tale dignità. Il reintegro del lavoratore riporta l’attività aziendale nel suo alveo naturale.

Il risarcimento è un atto di riparazione verso il lavoratore, ma non ripristina l’attività d’impresa così come era prima del licenziamento. Il risarcimento si muove sul piano diverso dei rimedi alla lesione dei diritto.

Una sanzione deve essere adeguata e coerente con la Costituzione.

La sanzione è giusta se ha una capacità di deterrenza. Il risarcimento non ha questa capacità. Afferma il principio di onnipotenza per l’imprenditore. Chi ha danari può permettersi tutto, anche il licenziamento ingiusto. Altro che deterrenza!

La mano libera in fabbrica e l'ingessatura dell'attività sindacale

Se per una manciata di soldi l’imprenditore può licenziare il dipendente, anche ingiustamente, avrà il potere di imporgli ciò che vuole. Solo i soldi limitano il suo potere.

Attraverso il ricatto del licenziamento l’impresa può far svolgere al lavoratore mansioni, orari e attività, anche se non previste in contratto.

La monetizzazione del licenziamento lo colloca nella logica degli investimenti. Cinquantamila euro o centomila sono soldi ben spesi, se servono a liberarsi di un dipendente con la schiena diritta, che è di cattivo esempio per i suoi colleghi, e nel contempo a lanciare un preciso monito ai suoi colleghi: chi non china la testa rischia il licenziamento.

E non mancano implicazioni che investono l’esistenza e la libertà dell’attività sindacale. A tutto ciò non c’è ostacolo, giacché l’utilizzo del licenziamento economico gli consente di liberarsi di qualche sindacalista scomodo, in barba al divieto dei licenziamenti discriminatori.

E certamente non è possibile fare sindacato senza autonomia del lavoratore rispetto alle pretese dell’azienda. Chi seguirà il sindacalista se avverte il morso del ricatto, il rischio del posto di lavoro?

La competività del prezzo basso 

Il licenziamento facile è finalizzato allo sfruttamento intensivo del lavoro e ciò nel quadro di una politica aziendale che sviluppa il suo margine competitivo sui prezzi bassi di vendita. E’ questa la competitività industriale che vuole il governo per il nostro Paese? Insomma, una strategia che ci pone in concorrenza con i cinesi, ma non con i Paesi ad alta tecnologia.

Ma per quanto il licenziamento possa essere facile e lo sfruttamento intensivo, l’Italia per la sua storia, per le sue specificità della risorsa lavoro, non potrà mai reggere alla concorrenza con i cinesi o gli indiani.

E la ricerca, la qualità, l’innovazione di processo e di prodotto, la formazione, la capacità la bravura dei lavoratori come fattore competitivo?

Ma tutto ciò non interessa il Governo: l'importante è assicurare all'impresa la libertà di licenziare anche se non è fattore competitivo e motivo di attrazione di investimenti esteri.

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