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La Storia e l’Economia: intervista ad Attilio Trezzini

Oggi sull’Osservatorio Globalizzazione abbiamo il piacere di ospitare Attilio Trezzini, professore all’Università degli Studi di Roma Tre, direttore nel Board of Directors del Centro di Ricerche e Documentazione “Piero Sraffa” e allievo di Pierangelo Garegnani, che ci parlerà, attraverso una lunga intervista, delle differenze tra i vari pensieri economici, della fondamentale critica di Keynes e Sraffa e di quali sono le implicazioni sui giorni odierni di questo pensiero dominante.

OG: Professor Trezzini, cominciamo dal principio, dalle basi, in economia diversamente da quello che pensano in certe università e in certi centri di ricerca, da quando nasce la materia non esiste un pensiero unico, quali sono i principali filoni di pensiero?

AT: Questa è una delle tante domande a cui qualunque economista darebbe una risposta diversa. A mio parere, una possibile chiave di lettura potrebbe essere che la teoria economica dopo un periodo di forte adesione ad uno schema teorico dominante, nel ‘900 ha sostanzialmente cominciato a frammentarsi in seguito a due grosse critiche subite: quella di Keynes e quella, meno nota ma più profonda, di Sraffa, queste due critiche hanno rotto l’unanimità di consenso. Quasi immediatamente, però, c’è stata una forte negazione della rilevanza di queste critiche. Diverse riformulazioni della teoria, attraverso sovrapposizioni di principi innovativi ad un corpo di principi tradizionali, e, infine, lo sviluppo di analisi di aspetti molto particolari dell’economia che però, sui temi generali, rinviano implicitamente alle teorie dominanti. Tutto ciò ha portato ad avere un grande apparente pluralismo con tanti filoni di ricerca che sono però ciascuno molto di nicchia, molto frammentati: l’economia sperimentale, l’economia comportamentale, la nuova teoria monetaria, ecc. All’interno di questi settori abbiamo poi molteplicità di posizioni e di visione. A questo apparente pluralismo e vivacità di orientamenti non corrisponde altrettanto pluralismo sulla visione di insieme dei sistemi economici e sui principi su cui di basano le politiche economiche. Questa situazione è in gran parte, a mio avviso, la conseguenza della reazione alle due importanti critiche richiamate sopra alla disciplina dominante. E lì, perciò, dobbiamo tornare indietro. Il primo passo però è capire la distinzione tra teoria classica e teoria marginalista.

OG: Quali sono quindi le differenze tra la teoria classica e la teoria marginalista o neoclassica?

AT: In questo ci aiuta molto la storia del pensiero, la ricostruzione dell’evoluzione della teoria economica: questa nasce sostanzialmente nel ‘700, i primi lavori che sono specificatamente economici sono a cura di William Petty (che sarà pubblicato postumo, influenzando più la generazione successiva che quella dei suoi contemporanei), il Tableau Economique di Quesnay, poi Smith e poi Ricardo nei primi decenni del diciannovesimo secolo. In tutto questo periodo, in cui la teoria economica era agli albori, e nel periodo successivo a Ricardo, era condiviso un approccio alla spiegazione della realtà, principalmente dei processi produttivi e della distribuzione del reddito, basato sulla nozione di sovrappiù. La rappresentazione del processo produttivo si concentrava cioè sul fatto che, avvenuta la produzione, una parte del prodotto è assolutamente necessaria per ripetere il processo produttivo sulla stessa scala. Questa parte è limitata a ciò che si deve reintegrare (la reintegrazione dei mezzi di produzione) e ciò che è necessario a mantenere i lavoratori (la sussistenza dei lavoratori), quello che eccede è un sovrappiù. Quest’ultimo è quella parte del prodotto sociale di cui l’economia può disporre liberamente senza compromettere il processo produttivo. Questa nozione è fondamentale fin dall’inizio con Petty e Quesnay, si sviluppa con Smith e, in maniera molto più articolata, con Ricardo e Marx. Succede però che con Ricardo prima e i Ricardiani poi, la trattazione teorica del problema del valore trova delle difficoltà. 

Il passo successivo dall’aver definito cosa è il sovrappiù è capire a chi è destinato. Nell’economia semplicissima di allora era ovvio che del sovrappiù una parte era destinato ai proprietari terrieri (i Rentier) e ai capitalisti (proprietari dei mezzi di produzione), ma aldilà di questo era tutto ancora da definire. 

Per comprendere chi e secondo quali regole si appropria del sovrappiù prodotto è necessario determinare il saggio del profitto (rapporto tra profitti e capitale anticipato). Questo perché i profitti si distribuiscono in proporzione al valore dell’insieme dei mezzi di produzione che vengono anticipati, non alla loro quantità fisica o al loro peso. Se il sovrappiù era costituito di grano e tela e i mezzi di produzione sono di grano, di cotone, ferro e carbone è evidentemente necessario individuare il valore dei due aggregati per determinare attraverso il loro rapporto il saggio del profitto. Nasce qui la teoria del valore-lavoro, l’idea di misurare il valore non ai prezzi – perché dipendono dal saggio del profitto che per essere determinato necessita dei prezzi – ma, come diceva Ricardo, ad una misura invariabile del valore. Questa teoria da un lato fu la forza ma dall’altro costituì le debolezze di questa visione: la forza perché consentì ai classici di capire le relazioni inverse tra salari, profitti e rendite, mostrando in modo chiaro quelle che Marx chiamò la “natura intima delle relazioni economiche borghesi” dietro la distribuzione del reddito; dall’altro però costituì due elementi di debolezza uno che fu esplicitato ed uno che possiamo comprendere solo col senno di poi. 

Dal punto di vista analitico già Ricardo era consapevole che se le merci fossero scambiate alla quantità di lavoro diretta ed indiretta necessaria a produrle (il lavoro incorporato) l’economia non sarebbe riuscita a garantire l’uniformità del saggio del profitto; diversi furono i tentativi per risolvere questo problema; il più avanzato e prossimo alla soluzione fu quello di Marx con la cosiddetta trasformazione dei valori in prezzi. Ma l’altro elemento di debolezza fu la nascita del socialismo ricardiano con una visione “naif” della teoria del valore in cui si affermava che l’origine del valore è il lavoro e che per questo tutto il prodotto spetta ai lavoratori e nulla ai profitti o alle rendite. Questa interpretazione di Ricardo evidenzia come l’approccio del sovrappiù mostri la natura conflittuale delle economie capitalistiche e le carica di un forte potenziale valore ideologico eversivo contro lo status quo. Si forniva una versione semplice, e anche scorretta, di un dato di fatto della realtà che l’approccio del sovrappiù mostra in modo limpido e cioè che l’economia capitalistica è conflittuale questa caratteristica delle teorie assieme ai problemi analitici che rimasero irrisolti ne provocano il superamento.

OG: Superamento che porterà all’economia neoclassica?

AT: Accade quindi che intorno al 1870 avviene quella che viene chiamata rivoluzione marginalista: Con le opere di Walras (1874), Menger (1871) e Jevons (1871) si propone l’utilità marginale come nozione su cui costituire la teoria del valore senza più attribuire al lavoro alcun ruolo come origine del valore. L’utilità marginale, paradossalmente, era un concetto non del tutto nuovo, infatti, Sraffa nelle sue lezioni a Cambridge alla fine degli anni 20, ricorda che essa era stata proposta ben trent’anni prima delle opere citate da alcuni economisti come Cournot (1838) e Gossen (1854) che furono completamente ignorati. Perché quindi, in soli venti, trent’anni queste teorie passarono dall’essere ignorate all’essere la base per un cambio di paradigma teorico? 

La risposta che ne da Sraffa è che negli stessi anni si verificarono fatti come l’esperienza socialista della comune di Parigi e l’organizzazione del movimento operaio attorno ai contributi filosofici di Marx che, da economista, riformulava in modo articolato e più solido la teoria dello sfruttamento (Come è noto la formulazione di Marx in termini di trasformazione dei valori in prezzi sebbene più solida, non era ancora priva di problemi. Ciò era dovuto anche al semplice fatto che Marx ancora non poteva beneficiare, semplicemente perché non esisteva, dello strumento delle equazioni simultanee per risolvere l’apparente circolarità logica del problema del valore). La cosa interessante è che nelle versioni degli anni ‘70, da Jevons in particolare, l’utilità marginale viene esplicitamente contrapposta all’economica ricardiana. Il tentativo era oltremodo ideologico (lo si capisce molto bene anche, e soprattutto, dalla corrispondenza privata di Jevons), cioè si voleva trovare un’alternativa alla misurazione del valore unicamente basata sul lavoro, perché se ne vedeva la pericolosità poiché si prestava ad una interpretazione socialista. È importante ricordare che quelle di Jevons, Menger e Walras nascono come teorie alternative alla economia politica classica, come un cambiamento di struttura logica della teoria economica; sarà poi Marshall a fare un’operazione di grande rilettura proponendo una (incoerente) sintesi tra le due teorie. Argomentava che la teoria classica e quella marginalista sono due versioni della stessa teoria del valore, una eccessivamente incentrata sui costi di produzione e l’altra sulla domanda e sull’utilità, proponendo la sua versione, dove la curva di offerta è basata sui costi di produzione e la curva di domanda è basata sull’utilità, come la corretta rilettura di sintesi di Ricardo e marginalisti. L’inventore del termine “neoclassico”, a rappresentare questa ipotetica continuità, sarà poi Veblen.

Questa evoluzione della teoria economica deve essere tenuta presente anche quando sentiamo affermare, sulla base della lettura dell’evoluzione del pensiero economico proposta da Marshall, che Keynes si sia contrapposto ai classici. Capire questa distinzione tra visione classica e marginalista è cruciale per interpretare il dibattito successivo ovvero per interpretare sia Keynes e la sua critica al marginalismo sia la critica che deriva dal contributo di Sraffa sia, infine, come la teoria dominante abbia reagito a queste critiche. 

OG: In cosa consiste, in sintesi, la critica di Keynes e perché verrà “riassorbita”?

AT: Il problema della critica di Keynes e del modo di come è stata recepita e poi riassorbita in un contesto marginalista è che purtroppo Keynes – che certamente era un titano del pensiero economico – era molto interessato ad incidere sulla realtà e non a diede solide fondamenta alle sue teorie, quasi al contrario di Sraffa che riteneva che per incidere sulla realtà fosse necessaria una solidità assoluta delle fondamenta teoriche su cui si dovessero basare critiche alla teoria dominante a costo di rimandare di decenni la presentazione delle sue idee innovative. 

Keynes si concentrò su un singolo punto: la affermazione come fenomeno generale della possibilità che l’economia possa trovarsi in posizioni stabili, caratterizzate dalla sottoccupazione delle risorse disponibili. Questo punto era una radicale critica al Laissez faire e il fondamento per l’intervento dello stato nell’economia attraverso politiche fiscali, monetarie, industriali. 

Il problema fu che Keynes propose una teoria innovativa: il principio della domanda effettiva che serviva a centrare il suo obiettivo. Questa parte della sua teoria in contrasto con la tendenza al pieno impiego marginalista, fu affermata da Keynes anche sulla base di una critica al marginalismo che è molto debole in quanto intimamente di breve periodo: è basata tutta sugli effetti di ‘disturbo’ che le aspettative possono esercitare sui meccanismi tradizionali e sulla teorizzazione del fatto, giustissimo e cruciale, che il tasso di interesse sia una grandezza monetaria senza però una critica del fondamento reale del tasso di interesse propria dalla teoria tradizionale. 

In assenza di una critica demolitiva dei fondamenti reali, di lungo periodo, sia della tendenza al pieno impiego sia del saggio di interesse come fenomeno reale fu possibile, quasi immediatamente con Hicks, Modigliani e Patinkin reinterpretare il contributo di Keynes riassorbendolo nell’ambito tradizionale. Queste interpretazioni limitarono quel contributo al breve periodo considerando la critica di Keynes come l’analisi di scostamenti momentanei dalle posizioni di equilibrio, e, quindi, implicando che lasciando operare il mercato nel lungo periodo si sarebbe comunque, sebbene lentamente, ritrovata la tendenza al pieno impiego. La posizione Keynesiana prevalente divenne che per poter accelerare questo processo si potesse limitarsi ad utilizzare al più la politica monetaria. Questo a differenza di quello che pensava Keynes, che vedeva nell’intervento diretto dello stato la questione fondamentale; con la sintesi neoclassica già si intravedeva il punto di arrivo del non lunghissimo processo di riassorbimento del contributo di Keynes: l’idea che l’intervento dello Stato va a turbare l’operare delle forze del mercato. 

Da Keynes in poi si è susseguita una moltitudine di approcci teorici nella macroeconomica: monetaristi, nuova macroeconomia classica, le aspettative razionali, che, semplificando, possono essere concepiti come un susseguirsi di critiche alla rilevanza dei principi Keynesiani concepiti come elementi di disturbo al meccanismo di funzionamento delle economie proposto dalle teorie tradizionali. 

Nel panorama della macroeconomia ormai, tutti assumono che nel lungo periodo l’economia tenda al pieno impiego, la differenza sta in quando è lungo questo lungo periodo. Ma dal punto di vista di un economista Sraffiano, quale io sono, la critica di Sraffa è l’unica che demolisce le basi della tendenza al pieno impiego ed è perciò l’unica strada non solo per comprendere le relazione tra valore e distribuzione ma anche per affermare il contributo di Keynes in termini generali, validi per il breve e per il lungo periodo, per studiare le crisi accidentali ed eccezionali come i periodi di ripresa, le lunghe espansioni e i periodi a forte inflazione, la determinazione del livello dell’output e l’evoluzione di esso nel tempo, ossia l’accumulazione e la crescita. Questo perché la critica che deriva dal contributo di Sraffa conduce ad affermare che le funzioni di domanda di fattori produttivi come le descrive la teoria tradizionale non esistono, la flessibilità dei saggi di remunerazione non ci porta dunque al pieno impiego ma soltanto a pagare di meno alcuni “fattori” rispetto ad altri. Andando oltre questo impianto teorico marginalista, non avendo nessuna automatica tendenza di lungo/lunghissimo periodo al pieno impiego, il livello e l’espansione della domanda, e con essi l’intervento dello stato attraverso politiche di gestione della domanda diventano essenziali per determinare il trend dell’economia. Non solo per uscire da crisi eccezionali, ma anche per evitare che equilibri di sottoccupazione, come li chiamava Keynes, diventino la normalità implicando sprechi di risorse esistenti e, soprattutto, la mancata creazione ulteriori risorse produttive potenzialmente creabili.

OG: Quindi le lacune nella teoria di Keynes erano parecchie?

AT: La sua teoria trasportata nel lungo periodo aveva molte debolezze, perché le aspettative nel breve periodo si possono prendere date, ma nel lungo periodo vanno spiegate e così la base teorica che Keynes dava all’elasticità della moneta al tasso di interesse era la divergenza tra il tasso di interesse corrente e un tasso di interesse atteso che determina la allocazione della ricchezza finanziaria tra titoli e liquidità. Quindi è intimamente una teoria di breve periodo la cui estensione al lungo periodo fu tentata solo lungo linee di riassorbimento nell’ambito teorico marginalista. 

Ci fu un tentativo dei Keynesiani di Cambridge di fare del breve periodo il solo orizzonte teorico significativo ma la forza relativa della teoria dominante rispetto a questi tentativi si è dimostrata molto maggiore. 

Ma è importante considerare che tali debolezze non sarebbero, forse, state insuperabili se l’evoluzione della teoria non fosse stata condizionata da altri fattori. I fondamenti della teoria marginalista sono infatti stati difesi, semplicemente ignorandole, anche dalle critiche originate dal lavoro di Sraffa che erano molto più solide di quelle di Keynes proprio perché rivolte ai fondamenti di lungo periodo e generali della teoria. 

Come Sraffa affermava nelle sue lezioni a Cambridge alla fine degli anni ‘20, l’economia è una disciplina molto disturbata dalla realtà: quando la lettura della realtà è corretta ma questa lettura danneggia una classe che in qualche modo è dominante o in rapida ascesa, quest’ultima riesce ad orientare il consenso e persino la ricerca scientifica, si riesce così a far trascurare non solo la validità della lettura della realtà offerta da una teoria ma anche le critiche che vengono rivolte alle teorie che invece giustificano lo status quo. 

Queste considerazioni del giovane Sraffa circa la relazione tra realtà e pensiero economico sono ben dimostrare dal riassorbimento della teoria di Keynes a dalla negazione della rilevanza generale delle sue intuizioni in materia di teoria monetaria (l’elasticità della domanda di moneta e la natura istituzionale e monetaria del tasso di interesse). 

Ancora di più, però, si adattano al destino del contributo critico derivante dal lavoro dello stesso Sraffa. Negli anni 60 e 70 si sviluppò il dibattito sulla nozione di capitale propria delle teorie tradizionali. In sintesi, e semplificando una materia complessa, Sraffa aveva compreso l’impossibilità di misurare in termini di una grandezza singola l’aggregato di beni capitali eterogenei che viene usato nel processo produttivo all’interno della spiegazione teorica del valore e della distribuzione. Questa impossibilità minava in realtà sia la teoria classica che la teoria marginalista. Nella prima, si manifestava l’impossibilità di misurare il capitale in termini lavoro incorporato. Nella teoria marginalista, i beni capitali eterogenei costituiscono un singolo “fattore produttivo” misurato in valore e come il lavoro e la terra (gli altri fattori produttivi) deve poter essere misurato prima e indipendentemente dalla determinazione dei prezzi relativi. 

C’è tuttavia una importante differenza tra le due teorie. Le equazioni di prezzo di Sraffa consentono di risolvere il problema nell’ambito dell’approccio teorico alla determinazione del valore e della distribuzione che fu dei Classici e di Marx. Il valore delle merci viene determinato simultaneamente al valore delle merci usate come mezzi di produzione (Significativo il titolo del lavoro di Sraffa: Produzione di merci a mezzo di merci). Al contrario questo problema è irrisolvibile nell’ambito dell’approccio teorico marginalista in cui la concezione della produzione non è circolare ma lineare: dalle quantità disponibili dei fattori si arriva al prodotto, al suo valore e alla distribuzione di esso. Questa impostazione implica la necessità che la quantità dei fattori sia misurabile prima e indipendentemente dai prezzi dei prodotti. 

Negli anni successivi alla pubblicazione del lavoro di Sraffa queste linee di pensiero furono sviluppate (ricordiamo tra i diversi autori che si dedicarono a questo: Garegnani e Pasinetti due allievi italiani di Sraffa a Cambridge) fino ad individuare complessi fenomeni teorici (il reswitching of techniques e il reverse capital deepening) che mostrano l’incoerenza irredimibile dell’impostazione marginalista. È importante notare questi problemi di coerenza privano la teoria delle basi per la determinazione dei prezzi che sono però simultaneamente anche le basi per la tendenza al pieno impiego. 

Le critiche Sraffiane ebbero un quasi immediato generale successo, riconosciuto anche da importanti marginalisti come Samuelson, che aveva provato ostinatamente a riformulare la teoria mantenendone le caratteristiche principali. Nonostante questo, però, la potenziale distruzione della teoria era talmente carica di implicazione ideologiche che è stata nel corso degli anni successivi la critica alla nozione marginalista di capitale fu semplicemente ignorata. Eppure, da allora, nessuno è stato in grado di dimostrare che Sraffa e gli Sraffiani avessero torto. In nessuna disciplina, penso, un’impostazione teorica riconosciuta come sbagliata ha poi continuato ad essere applicata.

La teoria ha reagito alle critiche riformulandosi cambiando la nozione di equilibrio (con gli equilibri intertemporali che sostituiscono quelli di lungo periodo e con l’apparente scomparsa del capitale come fattore singolo misurato in valore). Ma le nuove formulazioni delle teorie dell’equilibrio economico generale sembrano comunque soggette alle critiche di Sraffa. Ma soprattutto queste formulazioni non possono essere la base per i meccanismi equilibratori che conducono alla affermazione della tendenza al pieno impiego che sono necessari ed impliciti nella macroeconomia dominante. La teoria della crescita, ad esempio, continua essenzialmente a basarsi sulla funzione aggregata della produzione che era il principale oggetto delle critiche degli Sraffiani negli anni ‘60 e ‘70. Sulla base di quei meccanismi tradizionali non viene affatto considerato che la domanda possa costituire un limite alla crescita e che possa essere una determinante del livello dell’output e della sua evoluzione. Viene considerata unicamente l’offerta potenziale (corrispondente al pieno impiego) come determinante dell’output e l’aumento esogeno o endogeno delle risorse come determinante della crescita. La tendenza al pieno impiego delle risorse sia data per scontata.

OG: E per le politiche economiche? Anche se non ce ne accorgiamo, quanto la dominanza di questa teoria economica basata sulla rimozione di una critica, influenza la nostra vita?

AT: Purtroppo, molto di più di quanto la difficoltà di capire queste cose ci possa far vedere. Tutta la politica economica degli ultimi trenta anni, tutta la costruzione dell’unione europea e dell’unione monetaria sono basate sulla validità della teoria marginalista. Noi non possiamo neppure concepire l’austerità, il pareggio di bilancio in costituzione, l’ossimoro della austerità espansiva se non diamo per scontato che il sistema tenda automaticamente al pieno impiego. Tutti ormai ci raccontano che abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità e che le pensioni sono state e sono ancora troppo generose, e cos’ via, dietro queste affermazioni c’è l’idea che l’economia è continuamente prossima al pieno impiego delle risorse e che se tu togli risorse a dei privati per pagare delle pensioni, costoro risparmiano di meno e così si determinano meno investimenti. Dietro questa idea c’è il principio dell’esistenza di un trade-off tra consumi e accumulazione che è giustificata solo se abbiamo la tendenza al pieno impiego. Se così non fosse, ridurre i redditi di chi risparmia tanto in favore dei pensionati, che spendono una proporzione maggiore del reddito, genererebbe ulteriore domanda, aumenterebbe il reddito aggregato e persino il volume complessivo dei profitti! Purtroppo, però è il saggio del profitto la grandezza rilevante per i capitalisti e questo genera, inevitabilmente, il conflitto. 

A nascondere questo conflitto di classe, cioè, il fatto che levare redditi ad alcuni a vantaggio di altri provoca conflitto, c’è nella teoria tradizionale l’idea conflittuale o meno, il mercato lasciato operare, tende a realizzare l’ottimo paretiano: per cui se il mercato lasciato agire realizza automaticamente la migliore situazione possibile, dal punto di vista dell’allocazione delle risorse, della quantità e della qualità di quello che produciamo ogni intervento che alteri questo funzionamento peggiorerebbe le condizioni economiche della collettività. Si affermano così oltre alla naturale tendenza naturale al pieno impiego, le relazioni inverse tra consumi e accumulazione, il principio che sono i risparmi a determinare l’accumulazione. Tutto questo però è plausibile solo se leggiamo la realtà con le lenti della teoria marginalista. Dopodiché se noi impostiamo tutte le politiche economiche sulla base di questi principi anche altre ne seguiranno. Come per esempio l’idea che non è più necessaria la politica industriale e gli aiuti di stato a settori cruciali per lo sviluppo di un paese siano dannosi. Ma questi punti di vista scellerati, si possono tradurre in politiche, come è avvenuto da decenni e come continua ad avvenire, solo se prevale nella politica un unanime adesione alla teoria marginalista, concepita come l’unica teoria economica esistente. 

Il contenuto ideologico di questa impostazione di politica economica è molto più potente di qualunque posizione estrema espressa dagli ormai rari movimenti di estrema sinistra di ispirazione marxista. È stato reso, tuttavia, meno evidente. La sapiente opera di rimozione delle critiche e di omogeneizzazione dell’impostazione della ricerca in tutte le ‘migliori’ università del mondo ha creato un pensiero unico che si autocertifica come l’unico scientifico.

Anche nel linguaggio la rimozione della diversità dei punti di vista è stata radicale. Ci sono delle parole che sono diventate positive anche se per molti hanno sole implicazioni negative. Per esempio, “flessibilità” è in realtà precarietà: per un giovane avere un lavoro precario è una tragedia! Ma molti la considerano un elemento positivo della realtà perché quella ideologia induce a credere che faciliti il raggiungimento di quella condizione di ottimo dell’economia. 

Quando parliamo dell’equilibrio della finanza pubblica dovremmo pensare che se questo equilibrio è compatibile solo con bassa crescita e disoccupazione di massa, impoverimento dei ceti medi e demolizione della protezione sociale dei più deboli, è un grave squilibrio per la collettività ed ha una valenza negativa.

Tutte le politiche e persino tutte le parole che vengono dette derivano da un’ideologia che è pervasiva e che induce a una lettura della realtà fortemente condizionata dal punto di vista di classe che si assume. L’omogeneità dei punti di vista nella teoria economica, la mancanza di pluralismo nella ricerca scientifica non sono fenomeni che condizionano solo la disciplina economica e la vita dei ricercatori in questo settore, sono elementi che limitano l’effettiva democraticità dei nostri sistemi politici e sociali e in definitiva limitano la nostra libertà. 

Foto di Andreas Breitling da Pixabay 

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