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La Rivoluzione Culturale di Matteo il cinese

Ieri, sul Sole, è riportata una dichiarazione di Matteo Renzi piuttosto interessante, relativa alle delocalizzazioni. Che pare non debbano essere più chiamate così. Viviamo tempi velocissimi, chi non corre è perduto.

Nell’articolo, a firma dell’inviato Gerardo Pelosi, a Renzi viene attribuita questa dichiarazione:

«Per salvare l’industria italiana bisogna cambiare cultura – dice davanti a una tazza di tè verde con a fianco il consigliere diplomatico Armando Varricchio, regista della missione – cominciare a dire che non esiste delocalizzazione ma solo internazionalizzazione, che senza lo stabilimento in Vietnam la Piaggio sarebbe stata costretta a chiudere Pontedera». Perché fare sistema Paese in questa parte del mondo, secondo Renzi, serve a garantire l’occupazione in Italia. «Può sembrare un paradosso – osserva il premier reduce da un colloquio riservato con Tony Blair sui temi europei – ma non lo è, gli altri Paesi europei dalla Danimarca alla Germania hanno molto da insegnarci e noi dobbiamo ripensare il modo in cui facciamo sistema»

Quindi, no alla parola delocalizzazione, sostituita (peraltro con non lieve forzatura) da internazionalizzazione. Che è ben altro, ma transeat. Ma il significato delle parole di Renzi resta oscuro. Sembrerebbe la presa d’atto dell’esistenza delle catene globali del valore, cioè della specializzazione produttiva transnazionale, ma con questa affermazione e con le comparazioni con altri paesi il nostro premier scorda la variabile fondamentale di questo discorso: il valore aggiunto contenuto nel manufatto.

Detto in altri termini, se in Italia abbiamo una manifattura a basso valore aggiunto, la pressione sarà per delocalizzare l’intero ciclo produttivo in paesi che hanno strutture di costo più convenienti. Basti un esempio: potrà mai l’Italia reggere la concorrenza dei paesi emergenti sugli elettrodomestici bianchi, che sono per definizione manufatti a basso valore aggiunto? Domanda retorica, ovviamente. Tali produzioni potranno restare da noi solo con drastici tagli del costo del lavoro e del costo del capitale investito. Diversamente non ci sarà spostamento all’estero di segmenti della produzione, bensì dell’intero prodotto.

Conta la catena del valore aggiunto, e la specializzazione settoriale delle imprese operanti da noi. Ecco perché i confronti con la Germania ed altri paesi lasciano il tempo che trovano. Il dramma del nostro paese rischia di essere proprio questo: essere un paese ad alto reddito (per ora) con produzioni mediamente a basso valore aggiunto. Quindi, giusto non andare in giro a farneticare di dazi per proteggere le produzioni italiane ma attenzione agli entusiasmi da neofiti globalizzatori che si consultano con la divinità Tony Blair. La nostra economia deve cambiar pelle per non soccombere ma il processo non sarà semplice, né rapido né indolore.

Come che sia, dopo questa presa di posizione di Renzi ora attendiamo ulteriori puntualizzazioni del nuovo presidente dei ‘ggiovani imprenditori di Confindustria (Marco Gay), che a Santa Margherita (che noia, che barba) ha elaborato in modo piuttosto confuso una strana minaccia di espulsione per gli associati che delocalizzano mentre stanno già facendo utili. Già vediamo istruire processi in Confindustria, sulla quantificazione di “equo profitto” che impedisce la delocalizzazione ed apre la via all’espulsione dal sindacato degli imprenditori.

In viale dell’Astronomia pare peraltro scoppiata la fregola dell’autodafé. Come quando il senior Giorgio Squinzi invoca espulsioni per gli imprenditori che corrompono, che siano obbligati a farlo o meno. Siamo sinceramente preoccupati per il bilancio di Confindustria, a dirla tutta.

 

Foto: Carlo Nidasio/Flickr

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