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La Douleur

La Douleur, dolore a profusione, a cominciare dal viso dolente della protagonista Mélanie Thierry, dolore che emana dalle parole che dominano le oltre due ore del film, riportate quasi integralmente, dal libro di Marguerite Duras. 

Ne risulta una trasposizione letteraria e letterale del libro ad opera del regista e sceneggiatore Emmanuel Finkiel (il cui padre ad Auschwitz perse i genitori e il fratello), un pochino snervante, o 'énervante' visto che siamo in Francia. Libro che l'autrice disse proveniente da un suo diario scritto nel '45, nascosto e dimenticato per anni e infine pubblicato nel 1985. Marguerite Duras è contrita, si strugge e si dispera per un ritorno - che sembra ormai improbabile dopo la liberazione - del marito scrittore Robert Antelme sposato nel '39, come lei membro della Resistenza durante l'occupazione tedesca di Parigi, ma rapito e deportato. E' appesantita inoltre dal senso di colpa per la relazione segreta che aveva col miglior amico del marito, Dyonis.

Quando le speranze di un ritorno si affievoliscono comincia a frequentarsi con l'agente francese della Gestapo, Rabier, l'unico che possa favorirla ad apprendere notizie di Robert e che si dice onorato di sedersi a tavola con una scrittrice, ma il cui interesse per la donna va oltre questo motivo “culturale”. La frequentazione la fa sentire vicina a Robert e può essere utile al gruppo che lotta per la cacciata dei tedeschi; nel film l'azione manca, la lotta è solo immaginata in conciliaboli intellettuali.

Le parole del diario e il film stesso paiono essere un memento di ciò che furono l'occupazione e le deportazioni tedesche: quando Parigi è liberata la gente ha desiderio di lasciarsi alle spalle la tragedia. Immagini di morte costellano la sua mente, non si era fatta luce sulla specie umana... non si parla degli ebrei. De Gaulle aveva proclamato il lutto nazionale solo per la morte di Roosevelt, e per il popolo e i suoi morti nulla. E da dove escono questi funzionari ben vestiti nella Parigi liberata, dov'erano durante la guerra? Visse quel tempo e quell'attesa nel modo più tragico possibile; una sua inquilina invece era fiduciosa, confidava nel ritorno di sua figlia e le teneva una valigia pronta coi suoi vestiti; alla notizia che era stata uccisa col gas 5 mesi prima è distrutta, ma spera ancora che questa sia una diceria.

Il dolore e quello struggimento di Marguerite però sono soprattutto rivolti a sé stessa, ne fanno una creatura egoista, reclusa in casa e nel suo dolore, oltreché nei suoi sensi di colpa. Nulla è dato sapere da dove traesse il suo sostentamento e le tantissime sigarette che fumava, a profusione anch'esse nel film. Si figurava il ritorno del marito, che poco dopo il matrimonio già tradiva: a volte immaginava che avrebbe bussato alla porta e se lo sarebbe visto davanti, a volte lo dava per morto. Lo rivede il 7-5-1945, glielo riportano a casa da Dachau, una materia non ancora morta, scrive. Quando poco alla volta, lentissimamente e debole, egli torna alla vita essa scrive che Robert non è morto in un campo di concentramento, comunica a sé stessa che è morto altrove, di certo in lei.

Il film è candidato all'Oscar 2019 per il miglior straniero, ma forse non ha il peso e l'originalità giusti, riposa troppo sulla letteratura della Duras: parteggiamo per il nostro Dogman e Marcello Fonte!

 

 

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