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La "Cospirazione Mega". La storia della chiusura di Megaupload

Ecco cosa c'è scritto nell'ordinanza di custodia cautelare su Megaupload, firmata dal giudice statunitense Neil H. MacBride. Ad incastrare Kim Dotcom e i suoi più stretti collaboratori, le numerose mail che si scambiavano. Vediamo quali.

Il giudice statunitense Neil H. MacBride della corte di Alexandria, Stato del Virginia, parla senza mezzi termini di "Cospirazione Mega". E' lui il Magistrato del Grand Jury che il 5 gennaio scorso ha firmato l’ordinanza di arresto per Kim Schmitz, meglio noto come Kim Dotcom, ritenuto il fondatore del gruppo Megaworld nonché principale proprietario di Megaupload, e dei suoi 6 più stretti collaboratori.

I beni sequestrati valgono almeno 175 milioni di dollari, in quanto ci sono decine di società, come la Megaupload limited e della Vestor limited, e tutti i loro domini internet: oltre a Megaupload, Megavideo (streaming), Megaclick (pubblicità), Megaporn (contenuti a luci rosse) e Megapix (fotografie), giusto per citare i più famosi. In 72 pagine, il Magistrato Usa spiega perché i membri della “Cospirazione Mega” sono accusati di aver messo in piedi "un’organizzazione criminale di livello mondiale il cui scopo era la violazione del copyright e il riciclaggio di denaro su larga scala, con un danno stimato per i titolari dei contenuti protetti che supera il mezzo miliardo di dollari e utili per 175 milioni".

Le indagini dell’Fbi (Federal bureau of investigation) erano partite nel marzo 2010. Ad inchiodare i proprietari della galassia Megaworld, le mail che si scambiavano e la struttura del loro sito, utilizzato per diffondere illegalmente film, programmi televisivi, album musicali, e-book, fotografie, videogiochi e software informatici. Ospitati su centinaia di migliaia di server presi a leasing in mezzo mondo (dal Nord America all’Olanda, passando per la Francia) e pagati milioni di euro.

Per il giudice, Megaupload è stato "appositamente creato a questo scopo", nonostante fosse ufficialmente "un servizio privato per l’archiviazione online di file di grosse dimensioni". Una definizione che contrasta con la realtà dei fatti, per almeno due motivi. Il primo è che se per un tot di giorni il contenuto non viene scaricato "il sistema lo cancella definitivamente". Il secondo è che "a differenza di altri servizi similari", utilizzati per inviare allegati troppo grandi per essere spediti tramite email (come We Transfer), Megaupload "scoraggiava la conservazione a lungo termine", in quanto «premiava gli utenti che inserivano contenuti scaricati dal maggior numero di persone possibili".

Ogni mese "veniva stilata una classifica e quelli che stavano ai primi posti venivano remunerati" tramite conti correnti elettronici Paypal. C’erano utenti che in questo modo riuscivano a guadagnare anche 5.000 dollari l’anno, grazie all’inserimento dell’ultimo film piratato uscito al cinema. Perché di certo non si finisce nella top ten mondiale del mese mettendo online il video delle proprie vacanze.

I soldi, del resto, per il gruppo Megaworld non erano un problema. Grazie ai film programmati in sala e alle serie tv appena trasmesse sulle pay tv, il portale ha scalato le classifiche del web diventando "il 13esimo sito più frequentato al mondo". Non per niente si vantava di "aver avuto nella sua storia più di un miliardo di visitatori, oltre 180 milioni di utenti registrati e una media di 50mila accessi al giorno che rappresentano circa il quattro per cento del traffico totale su internet".

Numeri da capogiro che Dotcom sapeva come trasformare in centinaia di milioni di dollari. Con questa mole di traffico il grosso degli introiti proveniva ovviamente dalla pubblicità (dai banner alle pagine di altri siti che si aprivano al momento dell’accesso), grazie alla quale secondo il giudice sono entrati "almeno 25 milioni di euro di dollari" l’anno.

Il loro concessionario, come per gran parte degli altri siti web, era Google Adsense. Il colosso di Mountain View decide però di uscire dalla partita Mega il 17 maggio 2007, giorno in cui scrive una mail a Dotcom in persona per fargli presente che "durante la nostra ultima revisione al vostro sito, i nostri esperti hanno trovato numerose pagine che contengono link a contenuti protetti da copyright". Per tanto, Google "non potrà più lavorare con voi". E' proprio in seguito a questa decisione che Megaworld apre una propria società, Megaclick, che da quel momento in poi si occupa della raccolta pubblicitaria per tutti i siti del gruppo.

Sarà proprio quest’ultima a firmare nel novembre 2009 un contratto milionario con l’inglese Partypoker.com, uno dei più grandi casino online al mondo con circa 3 milioni di visitatori l’anno. Gli altri introiti, derivavano invece dagli abbonamenti. Per avere una maggiore velocità di connessione, per caricare e scaricare materiale senza limiti e vedere video di oltre 72 minuti ("quasi tutti i film superano questa lunghezza", sottolinea il giudice), bisognava pagare.

Il costo variava dai 10 dollari al mese ai 260 a vita e soltanto "grazie agli abbonamenti nelle casse del gruppo sono entrati oltre 150 milioni di dollari". Infine la questione più spinosa: la possibilità per i proprietari dei diritti d’autore di segnalare al sito i contenuti che violavano il copyright per farli rimuovere.

Sul sito c’era "un apposito tasto per farlo". Ma dato che il core business del gruppo era proprio l’uso di questo materiale, Megaworld aveva preso le sue contromisure per rendere "difficile, se non impossibile", la rimozione alle major. "Ad ogni contenuto caricato dagli utenti, il sistema assegnava tramite un algoritmo matematico un apposito codice chiamato Md5 hash". Nel caso in cui quel determinato file era già presente sui server Megaworld non veniva salvato una seconda volta ma otteneva semplicemente un nuovo link.

Cosa che potevano fare anche gli stessi utenti, creando decine di nuovi collegamenti al file che poi pubblicavano in Rete su altri siti e forum. Il trucco si nasconde proprio dietro a questo diabolico metodo. "Se un determinato file ha più di un link - spiegano i magistrati - fallirà qualsiasi tentativo da parte del titolare del copyright di interrompere l’accesso al contenuto utilizzando lo strumento per segnalare l’abuso, perché tutti gli altri collegamenti continueranno ad essere disponibili".

In sostanza, dai server non veniva cancellato il file ma soltanto il singolo collegamento. Inoltre Megaupload non cancellava gli utenti recidivi nel caricare online contenuti protetti. Tra le altre cose impossibili da visualizzare usando il motore di ricerca interno al sito che viceversa mostrava soltanto piccoli video, in stile YouTube, creati ad hoc. Una strategia che per il giudice Neil H. MacBride significa una sola cosa: "Associazione a delinquere finalizzata alla ripetuta violazione del copyright".

Un’accusa, che sommata a tutte le altre, potrebbe costare per ognuna delle 7 persone arrestate fino a 50 anni di carcere. Anche perché hanno commesso un grande errore: quando gli utenti scrivevano per chiedere se sul sito erano disponibili gli episodi di una determinata serie, loro gli inviavano il link grazie al quale vederla. Anche per questo oggi sono accusati in prima persona di aver diffuso materiale protetto dal copyright. Per le major, Megaworld, è stata una vera e propria spina nel fianco.

Tanto che hanno dovuto assumere nuovo personale da destinare tutto il giorno a scovare i link a Megaupload pubblicati nella Rete. Dall’India al Messico, passando per la Francia, nella casella di posta elettronica del sito arrivavano continuamente mail che segnalavano migliaia di link a contenuti protetti. Il gruppo era subissato dalle proteste delle case cinematografiche e anche gli introiti iniziavano a crollare. Nell’aprile 2009, Dotcom invia una mail agli altri soci: "Nel ricordare il forte calo delle entrate, già avvenuto nel 2008, ho pensato che potrebbe derivare dalla cancellazione di massa dei link. Questa cosa mi fa impazzire, perché vi ho spiegato mille volte che bisogna controllarle con maggiore attenzione a partire da chi le richiede".

Da allora, in casa Megaworld, cambiano le regole. "In futuro - spiega ancora Dotcom - siete pregati di non cancellare migliaia di link a nome di un unico soggetto a meno che non si tratti di una grande organizzazione degli Stati Uniti". La Warner Bros è tra queste. Nella prima metà del settembre 2009 la casa cinematografica di Burbank scrive diverse mail ai gestori di Megaupload. Il rappresentante della Warner sostiene che la major è stata "in grado di rimuovere i collegamenti" ai contenuti che violano il loro copyright ma chiede al sito di aumentare il limite fissato unilateralmente a "2.500 cancellazioni al giorno".

Mathias Orman, il cittadino tedesco residente a Hong Kong cofondatore di Megaupload, amministratore delegato del gruppo e capo ufficio tecnico, gira subito il messaggio a Dotcom consigliando "di rispettare la loro richiesta perché ai livelli di crescita attuali non possiamo permetterci di non essere cooperativi". Il capo accetta, dando disco verde ad Orman per "aumentare il tetto a 5.000 al giorno ma di non consentire cancellazioni illimitate".

Nel frattempo anche la stampa si accorge di loro. Anche in questo caso dagli Stati Uniti alla Francia, passando per la Germania e l’Olanda, essendo un servizio globale. Nel luglio scorso il principale settimanale tedesco, il Der Spiegel, pubblica un articolo in cui parla del gruppo Megaworld e di una proposta di legge presentata in Parlamento per arginare la pirateria su internet. Per certi versi simile alle due norme (Sopa e Pipa) attualmente in discussione negli Usa.

Dotcom invia così una mail ai suoi soci nella quale comunica che alcune aziende tedesche chiedono la disdetta dei contratti pubblicitari e si chiede: "Forse è meglio non volare in Germania?". Del resto gli uomini della Megaworld sapevano fin troppo bene di essere nel mirino delle autorità di mezzo mondo. Alcuni siti similari erano già stati chiusi in diversi Paesi e la morsa attorno a loro si stava stringendo. Ad un certo punto si concretizza il rischio che anche Paypal, società leader a livello mondiale per i pagamenti online, smetta di fare affari con loro.

A quel punto Dotcom sospende i pagamenti agli utenti e manda alla società Usa una mail paradossale: "Il nostro team legale negli Stati Uniti citerà in giudizio alcuni dei nostri concorrenti che pubblicizzano le loro attività legali. Vi consiglio di non lavorare con i siti che sono noti nel pagare gli utenti che caricano contenuti piratati. Perché - continua senza alcuna vergogna il fondatore di Megaupload - con il loro comportamento danneggiano l’immagine e minano l’esistenza dell’intero settore del file hosting. I siti a pagamento Fileserve.com, Videobb.com, Filesonic.com, Wupload.com, Uploadstation.com non hanno alcuna politica contro la violazione ripetuta del copyright. E utilizzano Paypal per pagare i trasgressori".

Della serie il primo che canta è quello che ha fatto l’uovo. L’epilogo della vicenda lo conosciamo praticamente tutti. La festa finisce giovedì 19 gennaio, quando due elicotteri dell’Fbi atterrano nell’abitazione di Dotcom ad Auckland, in Nuova Zelanda. Il 37enne con doppia cittadinanza (finlandese e tedesca), pluripregiudicato per frode, insider trading e pirateria informatica, viveva in una mega villa da 18 milioni di dollari, tra le più lussuose del Paese.

Kim ha immediatamente capito che i federali erano lì per lui. Così, nel giro di una manciata di minuti, si è barricato in un bunker sotterraneo. Per stanarlo, i federali hanno dovuto sfondare il pavimento con i martelli pneumatici. Nella sfarzosa magione gli agenti hanno trovano quasi 5 milioni di dollari in contanti, quadri d’autore, preziosi gioielli e 18 auto di lusso, tra cui Rolls-Royce, Mercedes coupé, Maserati e una Cadillac rosa del 1959, targate “Dio”, “mafia”, “hacker” e “polizia”.

Gli inquirenti hanno accertato che soltanto nelle tasche di Kim Dotcom, "nel 2010 sono entrati 42 milioni di dollari". Non male anche quanto messo insieme da Mathias Ortmann, cofondatore del gruppo e ad dell’azienda, anche lui finito in manette, che nel 2010 ha portato a casa ben "9 milioni di dollari". Lo stesso che quando nell’estate 2008 un socio del gruppo gli dice "che bel modo di fare soldi, siamo dei moderni pirati", subito lo corregge: "Noi non siamo pirati, stiamo solo fornendo loro l’infrastruttura".

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