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La Cina portatrice di pace

La Cina è attualmente quattordicesima tra i Paesi che contribuiscono alle missioni di pace Onu in giro per il mondo. Fornisce più militari, poliziotti e osservatori di altri 3 membri del consiglio di sicurezza: Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

E’ passata molto acqua sotto i ponti da quando Pechino e le Nazioni Unite si facevano la guerra, durante il conflitto in Corea (le truppe Usa, sudcoreane e alleate operavano di fatto sotto il cappello Onu). In prospettiva, il contributo cinese è destinato ad ampliarsi ulteriormente.

Cosa significa?

Un recente rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute fa il punto sul ruolo espansivo della Cina nel quadro del peacekeeping. Si parla di “fattori intrecciati” che spingono la Cina in questa direzione.

Primo. La Cina vuole impegnarsi di più sul sentiero della sicurezza globale per dare di sé all’estero un’immagine benevola e “armoniosa”, bilanciando così l’influenza Usa ed occidentale e facendosi accettare come grande potenza.

Secondo. L’impegno corrisponde a un’ esplicita esortazione del presidente Hu Jintao: l’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) deve “svolgere una nuova missione storica” nel 21° secolo, che coincide con operazioni militari non necessariamente di guerra.

Terzo. Le missioni internazionali servono all’EPL per imparare: tecniche antiguerriglia, esperienza di coordinamento e comando, sistemi di intervento rapido, etc.

La partecipazione di Pechino è tuttavia vincolata. Al di là dei problemi pratici - gli operatori cinesi hanno spesso problemi di lingua o di preparazione tecnica - c’è la ragion politica.

Innanzitutto, la Cina applica il principio di sovranità nazionale e di non interferenza. Non partecipa quindi alle missioni che non siano state esplicitamente richieste o accettate dallo Stato-teatro delle operazioni.
Inoltre contribuisce finanziariamente al Department of Peacekeeping Operations (DPKO) dell’Onu solo per il 2% del suo budget totale. Un maggiore ruolo implicherebbe anche un maggiore contributo, ma la Cina decide caso per caso. E l’intervento dell’Onu non deve essere in contraddizione con i punti fermi della sua politica estera.

E’ evidente, da questa analisi, che la partecipazione della Cina alle missioni di peacekeeping è totalmente in linea con due tendenze che abbiamo già analizzato in passato.

Soft power: la Cina vuole farsi carico dei problemi del mondo per rendere chiaro a tutti che non è una potenza minacciosa e aggressiva. Persegue quella stabilità internazionale che le consente di agire in pace come polo d’attrazione economico e culturale per i Paesi dell’Estremo Oriente, oggi, e per il resto del mondo, forse, domani.

Istituzioni internazionali: l’atteggiamento cauto e pragmatico cinese è analogo a quello assunto nei confronti del Fondo Monetario Internazionale. Anche lì il contributo economico di Pechino è debitamente soppesato. La Cina vuole esserci, ma vuole anche ridiscutere le regole del gioco.

Infine, appare evidente che la concentrazione di effettivi cinesi in Congo (234), Liberia (570) e soprattutto Sudan (795 in due missioni distinte) corrisponde bene agli interessi del Dragone in Africa: interessi soprattutto economici.

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