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L’intervento della Cassazione sull’obiezione selvaggia

Il tema dell’aborto torna a far notizia. La Cassazione ha stabilito che il diritto all’obiezione di coscienza non implica il diritto di rifiutare anche le cure post-parto. E la vicenda oggetto della sentenza presenta alcuni aspetti interessanti.

Secondo la corte, un medico obiettore di coscienza non può rifiutare le cure alla paziente che ha effettuato una interruzione volontaria di gravidanza. Infatti la legge 194, scrivono i giudici, riconosce sì al dottore “il diritto di rifiutare di determinare l’aborto (chirurgicamente o farmacologicamente)”, ma “esclude che l’obiezione possa riferirsi anche all’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”, perché il medico è tenuto ad “assicurare la tutela della salute e della vita della donna, anche nel corso dell’intervento di interruzione di gravidanza”. Viene sancito che sul diritto dell’obiettore prevale quello “della donna in imminente pericolo a ricevere le cure”. E la Cassazione ha chiarito che il medico “ha rifiutato un atto sanitario, peraltro richiesto con insistenza da personale infermieristico e medico, in una situazione di oggettivo rischio per la paziente”.

Una sentenza importante che cerca di porre dei limiti all’ormai endemica diffusione dell’obiezione, tale da bloccare l’accesso all’ivg in intere province. Ma che rappresenta il minimo sindacale sulla base della stessa legge 194, spesso di fatto aggirata. La triste vicenda è quella di una donna che aveva già effettuato un aborto. Una dottoressa di un presidio ospedaliero in provincia di Pordenone, medico di guardia obiettore, si era rifiutata di prestare soccorso alla donna degente la stessa sera, sebbene l’ostetrica chiedesse la sua assistenza perché c’era il rischio di una emorragia. Erano dovuti persino intervenire il primario e il direttore sanitario, via telefono, con degli ordini di servizio. Ma il medico si è rifiutato di prestare assistenza, tanto che c’è stata una emergenza ed è dovuto venire il primario stesso per soccorrere la donna.

Il caso è finito in tribunale. Il medico aveva giustificato il mancato intervento sulla base di una interpretazione molto larga dell’art. 9 della legge 194. Dove però si dice esplicitamente che il personale sanitario è esonerato “dal compimento delle procedure e delle attività specificatamente e necessariamente dirette all’interruzione di gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento”. Non solo, ma non si può invocare l’obiezione di coscienza “quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”. La dottoressa è stata condannata a un anno di carcere per omissione di atti d’ufficio, con interdizione dell’esercizio della professione medica, dalla Corte d’appello di Trieste. Sentenza poi conferma appunta dal recente pronunciamento in Cassazione.

Ci pare che in questo caso il medico abbia dimostrato ben poca carità “cristiana”, rifiutandosi di assistere la donna. Non sorprende: l’atteggiamento di rifiuto nei confronti delle donne che scelgono l’ivg è diffusissimo. E facilmente l’obiezione di coscienza diventa “omissione di coscienza“, sulla base di una rigidissima e intransigente agenda no-choice. Ricordiamo che per la dottrina ecclesiastica scegliere o anche solo cooperare con un aborto significa automaticamente scomunica, esclusione dalla comunità e dai sacramenti. Nemmeno sorprende, dunque, che chi ha abortito sia colpito da un pesante stigma sociale in Italia. Chi fa propria una concezione comunitaria integralista non può non avere una repulsione verso l’altro considerato “peccatore” e “immorale”. Prova ne è l’aggressività della propaganda anti-abortista, tutta tesa a demonizzare chi sostiene il diritto della donna di scegliere e la stessa donna (con pioggia di accuse e paragoni di “omicidio”, se non “genocidio”). E chi subisce la generale riprovazione a causa di ciò viene considerata una persona malata, da compatire e colpevolizzare. Di più, ci si aspetta che porti il peso della colpa, e appare disumana se non prova tutto il dolore che le viene accollato d’ufficio. Proprio il tema tabù affrontato da Chiara Lalli nel suo ultimo libro: A. La verità, vi prego, sull’aborto.

È uno dei tanto risvolti negativi della retorica delle radici cristiane: l’identità religiosa si forma infatti non solo come condivisione di valori, ma anche e soprattutto come rifiuto ideologico di quelli degli “altri” (e come ulteriore passo, degli “altri” tout-court). Una retorica di cui ha fatto le spese in Irlanda Savita Halappanavar, morta per le conseguenze di un mancato aborto terapeutico e a cui i medici obiettori risposero, nel negarle assistenza, che “questo è un paese cattolico”. Le indagini sul caso, che ha realmente scosso il paese e riportato in auge il dibattito sull’aborto, hanno fatto emergere che i medici hanno dato priorità al feto rispetto alla salute della madre, sottoposta a un’agonia di giorni.

Ma anche questo caso rientra nella storia della dottrina cattolica, nella versione vigente da qualche secolo a questa parte. Si preferiva battezzare il feto piuttosto che salvare la madre e ciò contribuiva alla strage di donne incinte, considerate anche le precarie condizioni igienico-sanitarie dell’epoca. A teorizzare questa pratica, anche il teologo Francesco Emanuele Cangiamila. Tuttora ciò rimane un modello propagandato dalla Chiesa. Nel 2004 papa Giovanni Paolo II ha infatti santificato Gianna Beretta Molla, un’attivista cattolica rimasta incinta ma affetta da un tumore all’utero, che preferì portare a termine la gravidanza perdendo poi la vita. L’obiezione di coscienza, così come introdotta con la legge 194, era stata concepita come soluzione per salvaguardare i medici entrati in corsia dopo la legalizzazione dell’aborto. Ma è stata invece estesa anche ai nuovi medici e ha invaso ambiti come la contraccezione d’emergenza, fino a minare di fatto l’applicazione della legge in moltissime zone del paese con percentuali bulgare di dottori e anestesisti obiettori. A farne le spese le donne, che si vedono private della libertà di scegliere come gestire una gravidanza. Una questione ancora aperta e che sarà affrontata in un convegno organizzato dall’Uaar a Rimini il prossimo 14 aprile.

Il principio di laicità, così come i diritti individuali, devono necessariamente avere come riferimento un contesto pluralista. La dottrina cattolica, ancora oggi, presuppone invece una comunità in cui non sono ammesse deviazioni. È questo il motivo fondamentale per cui gli attriti sono all’ordine del giorno. È questo il motivo per cui, ogni tanto, qualcuno finisce anche per lasciarci la pelle.

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