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L’indiscutibile antisemitismo di Heidegger

Che Martin Heidegger fosse un nazista e un antisemita - nel pensiero più ancora che nella attività concreta della sua vita accademica - si era sempre saputo.

L'avevano già scritto a chiare lettere Massimo Fagioli nel 1980, Victor Farìas nel 1987, Hugo Ott nel 1988. E infine il filosofo francese Emmanuel Faye nel 2005 e con la versione italiana del 2012, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cui ha fatto seguito nel nostro paese un acceso dibattitto tra il campione del "pensiero debole" Gianni Vattimo e il suo principale oppositore filosofico, Maurizio Ferraris; sulle pagine de La Stampa il primo (“Heidegger non era razzista”) e del Manifesto il secondo (“Equilibrismi ermeneutici per tenere separati nazismo e razzismo”). Tutto da leggere su questo sito

E proprio l'acceso dibattito sul pensiero di Heidegger - oltre che la sua accettazione in ampi ambiti della cultura contemporanea soprattutto francese - rendeva difficile orientarsi sull'essenza della sua filosofia.

Finalmente la stampa dei Quaderni neri - i quaderni su cui il filosofo annotava i suoi pensieri più intimi (e compromettenti), di cui nessuno sapeva niente fino a pochi mesi fa - sembra porre fine ad ogni dubbio. E la stampa tedesca - Frankfurter Allgemeine Zeitung e Zeit in testa - ci è andata giù pesante: “i Quaderni sono un delirio filosofico e un crimine del pensiero”.

Non è che uno si iscrive al partito nazista e poi fa carriera fino a diventare Rettore e filosofo di punta del regime per un puro caso. Ma, appunto, questi aspetti carrieristici, per così dire “utilitaristici”, sono stati usati per dire che - ebbene sì - l’uomo aveva fatto uno scivolone e per opportunismo si era aggregato al carro del vincitore, ma che poi se ne era rapidamente allontanato; e ciò dimostrerebbe che la sua scelta fu superficialmente, non intimamente, coinvolta con il nazismo. Insomma l’uomo era debole e cedette, ma il Grande Pensatore era invece ben altra cosa.

E il pensiero heideggeriano - l’esistenzialismo - fu, con questa assoluzione aprioristica, accolto a braccia aperte da Sartre e da lì trasmesso agli ambiti della sinistra, condizionandola pesantemente soprattutto nelle sue frange più radicali. In Italia è stato il già ricordato Gianni (Gianteresio) Vattimo, filosofo e politico piuttosto ondivago (Radicali, Democratici di sinistra, Comunisti Italiani, Italia dei Valori oltre che varie liste civiche), a diventarne l’esponente di punta.

Anche i titoli della stampa italiana, che fanno seguito alla pubblicazione in Germania dei Quaderni neri, sono molto decisi: “Heidegger e gli ebrei: tutto quello che avreste voluto sapere” (La Stampa del 13 marzo); “Heidegger, antisemita e vero nazista” (Corriere della Sera, del 14 marzo); “Disgustose e terribili quelle frasi del mio Heidegger” (di nuovo La Stampa del 18) che riporta le parole di Günter Figal, presidente della Società Heideggeriana

Tutti articoli che seguono quelli di presentazione della pubblicazione: a partire dall’intervista di Antonio Gnoli alla filosofa Donatella Di Cesare (della comunità ebraica romana e vicepresidente della stessa società di studi, Heidegger Gesellshaft) su Repubblica del 18 dicembre scorso.

In questa intervista ci sono affermazioni molto interessanti quanto poco evidenziate: «Heidegger, secondo la Di Cesare, non parla mai degli ebrei come razza... ne fa un problema filosofico» scrive Gnoli; e la filosofa risponde «È come se individuasse un nemico sugli altri: l'ebreo... In alcune pagine dei Quaderni parla di Entwurzelung, di sradicamento dell'Essere, e dice che questo "sradicamento" è imputabile agli ebrei. È un'accusa metafisica. Non c'entrano niente il sangue e la razza...L'idea che mi sono fatta è che accanto a una questione filosofica ci sia in Heidegger una questione teologico-politica».

Il che finalmente sposterebbe l’attenzione degli studiosi della Shoah dalla logica “razzista”, ritenuta insufficiente a spiegare la vastità e caparbietà dello sterminio, verso una questione filosofica, teologico-politica o, dovremmo forse dire più esattamente “antropologica”, capace di andare al di là della “banalità del male”. Verso un oltre che di banale non ha proprio niente.

Frasi coerenti con quelle espresse anche dal linguista François Rastier su Alfabeta2: «Paradossalmente Heidegger supera a destra l’hitlerismo, ricorrendo a una radicalizzazione metafisica dell’antisemitismo». In altri termini il filosofo, di cui alcuni si ostinano a negare l’essenza nazista “scommetteva sul superamento di un hitlerismo invecchiato, finalmente vinto da un ultranazismo attualizzato e ormai privo di complessi”.

Lo stesso Rastier - di cui conosciamo un assolutamente imperdibile "Heidegger oggi - o il Movimento riaffermato" - se la prese giustamente mesi fa, in un interessante articolo pubblicato su Left, anche con chi «approva l’impegno nazista di Heidegger: “Heidegger, con la sua adesione al nazismo ha fatto un’azione coraggiosa”». Ce l'aveva con il già citato Vattimo, campione dell'heideggerismo di sinistra (sic).

Critiche più approfondite, anche se meno tranchant, dell'apodittico «quel ridicolo filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava» con cui Thomas Bernhard liquidava il "Genio" di Messkirch.

Non meno importante, per quanto meno conosciuta, l’influenza del filosofo tedesco sul pensiero (e sulla politica?) in Oriente e Medio Oriente. In particolare su quell’Iran khomeinista di cui tanto si parla e si è parlato per i pericolosi attriti con Israele. Lo sceicco Umar Ibrahim Vadillo arrivò a scrivere: «Egli è più importante per noi, musulmani, che per chiunque altro. Noi possiamo comprendere Heidegger in un modo che resta fuori dalla portata degli infedeli» (We can understand Heidegger in a way the kaffir never will).

Il che spiega certe manifestazioni antigiudaiche nel mondo islamico che ben poco hanno a che vedere con l'annosa questione israelo-palestinese.

Ma affermare che Heidegger fu antisemita tuttora solleva scandalo: un certo Pili su un blog del Messaggero (ed è solo l’ultimo della schiera dei difensori d’ufficio del “maestro” tedesco) arriva a sostenere che avere per amante proprio un’ebrea - quella Hanna Arendt de La banalità del male, testo tanto famoso quanto criticato (e criticabile) - sarebbe sufficiente a dimostrare senza ombra di dubbio che non fu antisemita. Curioso punto di vista (anche se magari un po’ limitato).

Ma, non contento, il baldanzoso Pili butta sul tavolo la sua carta di riserva. Perbacco, sono gli ebrei che vivevano «da più tempo di tutti secondo il principio della razza», tant’è che ancora oggi «sulle carte d’identità israeliane è riportata la “etnia” (...) e lo stato non si fonda sulla cittadinanza ma sull’idea di “nazione ebraica”».

Sarebbe la prova provata che i razzisti in verità erano gli ebrei, non quei poveri tedeschi. Un arzigogolìo mentale per sostenere quello che già il gotha del nazismo blaterava circa il pericolo giudaico che avrebbe “attaccato” il popolo tedesco minando le basi della sua stessa sopravvivenza (e le stesse farneticazioni si possono leggere ancora oggi su certi siti negazionisti).

Anche se questo, bontà sua, «non giustifica le camere a gas», l’esempio servirebbe solo per «spiegare come mai risultano certe frasi di Heidegger, riportandole al loro reale contesto».

Se Heidegger si lancia in terribili invettive antisemite ciò sarebbe conseguenza del loro “reale contesto”, cioè del fatto che un popolo viveva “secondo la razza”, appartato e secondo le sue tradizioni (ma che dire delle centinaia di migliaia di ebrei europei assolutamente e integralmente assimilati quando non convertiti che pure hanno finito la loro vita in una camera a gas ?).

Se un ragionamento simile fosse fatto oggi - a proposito di rom, cinesi o islamici (che vivono tutti appartati e secondo le loro tradizioni) - non avremmo dubbi di trovarci davanti ad un razzista leghista o neonazista, da rifiutare radicalmente. Ma trattandosi di Heidegger, tanto amato dalla sinistra sartrian-vattimiana, bisogna fare una capriola dialettica per dire che erano loro - le vittime dello sterminio nazista - a portare, allora come oggi, le stigmate del razzismo.

Naturalmente al blogger - che trova nei passaporti israeliani la conferma dell'atavico "razzismo" ebraico - non viene in mente che anche alcuni altri paesi hanno una palese caratterizzazione etnica (sono i paesi che si definiscono ufficialmente repubbliche “arabe”) o religiosa (le repubbliche “islamiche”), senza che nessuno abbia mai sollevato quelle stesse accuse di razzismo che lui (e molti altri) lanciano verso l'ebraicità dello stato israeliano. Anche quando viene fatto ben di peggio, come in Giordania dove, per legge, si ha diritto di cittadinanza purché non si sia di religione ebraica (e su questo tutti zitti).

Ma anche queste incoerenze sembrano coerenti con la logica di fondo: ai nazisti non si può sostanzialmente rimproverare nulla perché, secondo la logica del loro tempo, non facevano altro che cercare di liberarsi dal “razzismo” ebraico.

Chiamatelo come vi pare, ma questo è sempre il vecchio antisemitismo d’una volta, anche se a farsene carico sono persone che definendosi “di sinistra”, solo per questo si autoassolvono a priori dalle accuse di razzismo.

Come se un'etichetta politica appiccicata sulla fronte fosse una sufficiente garanzia di qualcosa di buono. Ma in verità, lo sappiamo bene, ci vuole ben altro.

 

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