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L’avvenimento avvitamento

Da piccolo mi sfottevano in tutti i modi per farmi capire che ero piccolo davvero. Tutti quei soprannomi che finivano per “ino” o peggio ancora per “inino”, diciamo così, mi sminuivano.

A giocare ero bravo, ma mi dicevano: “Quando giocherai coi grandi capirai quanto è difficile superare marcantoni di 2 metri”. E io in tutte le partite chiedevo il nome all’avversario che mi marcava per capire se era arrivato finalmente questo Marco Antonio, che da noi in Portogallo è un nome che va, per fargli vedere che non era così facile bloccarmi.

Con molta fortuna (solo fortuna come pensavano parecchi miei allenatori) sono arrivato al Boavista e ho vinto due volte il Mondiale Under 20 (era facile che lo vincessi proprio io per quell’Under fatto apposta per la mia taglia).

Al Benfica ho fatto grandi partite, ho segnato 3 reti in un solo match contro lo Sporting e i tifosi che fanno; invece di chiamarmi il Monumento, l’Imperatore, che so l’Avamposto o lo Sparviero (con quel tocco d’avventura che serve), come mi vanno a soprannominare: “Menino de Ouro”. A sto punto restavo a Madrid dove non mi cagavano proprio.

Con quel pezzo di… Paulinho Santos ci siamo rotti di tutto pur di far capire uno all’altro che eravamo diventati grandi. Ma le mandibole te le puoi fracassare anche quando cadi dalla bicicletta o sullo scivolo.

Ho fatto di tutto nella vita, ma il mezza tacca me lo dava anche mia moglie. Spero non per quello che pensate voi.

Così pensieroso, arrivai all’Europeo del 2000 per giocare contro l’Inghilterra. L’allenatore per prepararci negli spogliatoi ci disse: “Ragazzi attenti a tutti, ma soprattutto a quei due marcantoni in difesa, Campbell e Adams”

Finalmente. In una sola partita riesco ad acchiappare questo benedetto Marco Antonio, anzi due. Troppa grazia. Mi sentivo un altro. Più grande di una spanna. Non voglio esagerare come al solito.

Dopo 18 minuti perdevamo 2-0, me ne sono fregato alla grande. Figo fa un tiro sottile che si incunea nell’incrocio più remoto possibile. 2-1.

Rui Costa porta avanti a passo di fado un pallone distratto. Fa un po’ di scambi con il platinato più demodè del mondo Abel Xavier e con quella faccia monotonale di Bento. Poi soprappensiero crossa. Faccio una leggerissima finta per far indietreggiare sul secondo palo il Marco Antonio 1, Adams, che abbocca mentre pensa al rum di ieri sera e poi scatto avanti al Marco Antonio 2, il più terribile, la montagna nera Campbell.

Gli accarezzo i pantaloncini con la mano per tenerlo a distanza, lui mi colpisce con l’anca, ma mi manca (che ritmo nella rima che ho trovato). Io mi butto in avanti, come uno pterodattilo sulla preda. Famosi gli pterodattili per come azzannavano la preda. Almeno credo.

Cingo tutta la vita del mio marcatore con il mio corpo e in arcuato e irridente avvitamento colpisco la palla anticipando la sua pedata. Accompagno la torsione del collo con una leggerissima frustata di fronte per indirizzare. Mi lascio cadere meraviglioso. Me lo dico da me, ma era così.

Il pallone va in porta e Seaman crede a un autogoal.

Io contro due Marco Antoni. Da solo. E ho segnato.

Due anni dopo ho cercato di scuoiare in mondovisione l’arbitro argentino Angel Sanchez, non tanto per l’espulsione, quanto per la paternale che mi voleva fare sul fatto che faccio sempre di più il discolo.

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