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L’Egitto torturatore e l’anniversario di Tahrir

Mentre il parterre internazionale con Putin, Erdoğan, Macron, Merkel, sino al premier italiano Conte, era nei giorni scorsi in fibrillazione sulla questione libica e conduceva trattative coinvolgendo il carceriere dell’altra sponda mediterranea il presidente-golpista Al Sisi, in Egitto il 2019 s’era chiuso con la notizia della prima donna morta in prigione. 

Decesso avvenuto prima di Natale nel penitenziario di Al Qanater, famigerato come Tora, ed entrambi al Cairo. Ad Al Qanater – come denunciano associazioni dei diritti umani – sono concentrate molte detenute “politiche”, che poi sono persone non necessariamente impegnate in ruoli ufficiali e ufficiosi, ma donne punite per il contributo alla difesa di diritti, avvocatesse e attiviste perseguitate che s’aggiungono ad altre arrestate da tempo. Nomi noti e meno. Su taluni media stranieri, perché quelli egiziani ormai ‘normalizzati’ e resi afoni tendono a tacere ogni misfatto del regime, era finita Aisha Shater, figlia di uno dei capi storici della Fratellanza Musulmana. Lui arrestato nel novembre 2013, assieme a Badie e altri esponenti di vertice della Confraternita, lei cinque anni dopo. Poi la ragazza era stata ricoverata in ospedale per le pericolose conseguenza d’uno sciopero della fame. Era il mese di ottobre 2019 e la prigione Al Qanater diventava sempre più uno dei luoghi di perdizione per chi ci finiva dentro.

Le pratiche, non dissimili da quelle di altre galere messe su dalle Forze Armate d’Egitto, vedono un incremento di coercizioni criminali. Torture innanzitutto, fisiche e psicologiche. Quelle sofisticate che promettono e cancellano il barlume d’una possibile liberazione in cambio di denaro e prestazioni sessuali. Quelle grevi fatte con cavi elettrici sui genitali, stupri da parte di secondini mascherati, abominevoli e perverse violenze con strumenti di tormento. Schifezze dittatoriali, suprematismo machista, razzismo di genere che mirano a soffocare il dissenso femminile. Del resto se il sistema di terrore messo su dal raìs egiziano - che viene coccolato dalla politica globale perché torna comodo al riordino del Medio Oriente - non guarda in faccia neppure nomi noti del recente passato come quello di Aboul Fotouh, pensiamo cosa può accadere a persone qualsiasi. Fotouh, oltre a essere un noto medico, è stato un esponente prima della Fratellanza poi leader di più d’un raggruppamento e nel 2012 candidato alla presidenza, prima di diventare un detenuto. Ora è un carcerato che rischia la pelle. Quest’estate suo figlio ne denunciava ripetute crisi cardiache lasciate senza cura, non da secondini senza cuore ma dalle massime autorità di governo che, magari, ne auspicano una dipartita simile a quella dell’ex presidente Morsi. Questo il clima dell’Egitto seviziato e dimenticato. Queste alcune delle vicende su cui i potenti voltano pagina.

Domani ricorre il nono anniversario della Tahrir della speranza. Una parentesi, un sogno conquistato con fiumi di sangue (846 vittime) nei diciotto giorni che squassarono il clan Mubarak, non il suo sistema. E men che meno quello della lobby militare che, infatti, a breve lo sostituì e proseguì a orientare il Paese fino a riprenderne possesso. Domani qualche indomito oppositore può pensare se non di manifestare, perlomeno di mostrarsi. Poiché di coraggio i libertari egiziani ne hanno da vendere, qualcuno lo farà. Così gli avvocati dei diritti scampati alla repressione indicano un vademecum minimo di autotutela. Invitano a non camminare per via per lunghi tratti, evitare l’uso di metropolitana e bus, consigliano di utilizzare un’auto privata oppure prendere un taxi. Poi ovviamente di evitare di portare con sé il telefono mobile. Chi intendesse farlo dovrà cancellare dalla memoria foto personali e ogni immagine, numeri telefonici, indirizzi email, messaggi, applicazioni di social media. In quell’immensa, triste, grigia galera ch’è diventata il grande Paese arabo sono bastati anche piccoli pretesti per infilare nel perverso incastro di reclusione-liberazione-reclusione decine di migliaia di giovani ingenui i cui cellulari sono serviti alla polizia per incastrare un’infinità di loro amici. Innocenti colpevolizzati per aver ricordato che la gente di Tahrir, nello storico inverno 2011, chiedeva libertà e giustizia per quel nuovo Egitto che non è mai nato.

Enrico Campofreda

 

 

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