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 Home page > Attualità > Società > L’Asinara negli anni Novanta: l’isola del diavolo

L’Asinara negli anni Novanta: l’isola del diavolo

"L'isola del diavolo" è un testo contenuto nel libro "Fuga dall'Assassino dei Sogni" di Carmelo Musumeci e Alfredo Cosco (prefazione di Erri De Luca). Il testo contiene un'appendice dove sono state raccolte alcune testimonianze su quello che è successo nelle "Carceri speciali" delle isole di Pianosa e dell'Asinara agli inizi degli anni '90. Questo testo, di Carmelo Musumeci, segue la pubblicazione di quello di Marcello Dell'Anna ("Pianosa e l'Asinara negli anni '90: cosa furono le carcere speciali").

Entrambi i testi sono contenuti nell'appendice del libro. 

 

Per non dimenticare le carceri speciali.

Per non dimenticare Pianosa e l’Asinara.

Per non dimenticare il diritto calpestato e stuprato.

Perché qualcuno sappia ciò che è accaduto.

Arrivai il 26 agosto 1992 all’Asinara, sez.41 bis Fornelli. Una prigione nella prigione, una fogna dentro una fogna. La sezione 41 bis dell’Asinara è stata partorita da alcuni uomini in nero del Ministero di Disgrazia e d’Ingiustizia per dare la possibilità al sistema, di nascosto da tutto e da tutti, di distruggere i prigionieri con un metodo atrocemente malvagio, illegale e dittatoriale.

Accadeva di tutto, piccole e grandi violenze, pestaggi ed umiliazioni, guardie che rubavano e brutalizzavano in nome del popolo italiano. Le istituzioni non potevano ignorare, ma l’hanno fatto, hanno chiuso un occhio, a volte tutt’e due, per convenienza, per far pentire i furbi e i malvagi.

All’Asinara in quel tempo non c’era legge, quindi non c’erano diritti né giustizia. Veniva smorzato ogni tipo di spirito di rivolta attraverso precise tecniche psicofisiche, insomma, si veniva gradualmente annientati. Come ulteriore colpo di viltà, anche i magistrati di sorveglianza, che nonostante tutto avrebbero avuto la possibilità di discernere il vero dal falso facendo appello al buon senso (ma anche questo, quando c’era, restava nascosto) non agivano per paura del senso comune.

Là dentro non avevano più nulla, tranne noi stessi. Alcuni si limitavano a sopravvivere ridotti quasi come degli animali, altri decisero di usare la giustizia per alleviare le loro sofferenze e si pentirono.

Io mi ribellai in vari modi, feci anche lo sciopero della fame per oppormi all’oppressione e all’ingiustizia… e sì, ce l’ho fatta, sono partito con la stessa dignità con cui sono arrivato nella maledetta isola del diavolo. Ho lottato molto, ho lottato sempre per potercela fare. Pochi ce l’hanno fatta e per quei pochi è stata una vittoria. Nei momenti più duri la mia famiglia era l’unica ragione di vita, non avevano altro obiettivo che lottare per uscire da quel posto. Nei momenti più brutti mi ripetevo: “Carmelo, devi farcela”. Quando tutto mi sembrava impossibile, quando soffrivo atrocemente, anche in quei momenti ritrovavo l’incredibile forza di reagire. Reagivo soprattutto con la speranza di ritrovare la via del ritorno.

Quando ti trovi in momenti drammatici, tutto appare più chiaro e ti aggrappi ai veri valori della vita: l’amore e la dignità. Continuavo a lottare, era uno modo per sconfiggere la cattiveria dei miei aguzzini, dovevo credere, credere fortemente in me stesso. Ricordare quei momenti mi provoca una profonda rabbia, è difficile ripensare a quei giorni senza rabbia e senza provare di nuovo l’angoscia di allora, quando temevo che la capacità di reagire del mio fisico non fosse pari alla mia volontà. L’alimentazione era scarsa e cattiva, i topi erano ospiti fissi nella cella, una sola doccia di due minuti la settimana, mancava l’igiene… ma andiamo per ordine.

Dopo i gravi fatti accaduti nel paese, venni sottoposto allo stato di tortura dell’art.41 bis O.P. e tradotto nella famigerata sezione Fornelli del carcere dell’Asinara, in Sardegna.

Un viaggio allucinante: venni prelevato individualmente, messo in branco insieme ad altri compagni, tutti trasportati prima con aerei militari (sempre con le manette ai polsi) e dopo in elicottero. Appena arrivati sull’isola fummo immediatamente oggetto di soprusi e violenze. Un incubo fatto di sadismi, umilianti perquisizioni ad oltranza, spogliati delle nostre piccole cose, derisi; i nostri pacchi e vestiti mandati indietro, se non “persi”, oppure saccheggiati, eravamo in balia di aguzzini con la licenza di fare come gli pareva, se gli pareva, quando gli pareva. Una volta messo nudo in cella, con solo un paio di pantaloncini ed una maglietta, uno spazzolino e dentifricio (che in seguito presi ad usare per lavare i piatti), provai un senso di torpore che mi ammaliava la mente, spingendomi verso l’accettazione meccanica del fatto che mi trovavo in grossi guai, ostacoli insormontabili. Eppure si nascondeva nella mia mente confusa la forza di non arrendermi ai vari soprusi che si delineavano, indurito da una determinazione interiore che avrebbe sostenuto la mia anima quando il cuore e la ragione avessero ceduto.

Dopo i primi giorni avvenne il primo pestaggio: quando si usciva all’aria gli sgherri si mettevano in fila con i manganelli in mano. Un compagno anziano, lento nei movimenti, rimasto indietro, venne preso a calci, pugni e manganellate. Sentivamo urla strazianti. Al ritorno vedemmo il sangue sparso nel corridoio, ma eravamo tutti troppo impauriti per potergli offrire la nostra solidarietà e quella nostra debolezza fu l’inizio della fine, poiché fatti analoghi, in seguito, si ripeterono sovente.

In quel periodo imparai a conoscermi, a crescere dentro, scoprii che lo Stato era peggio di quel che credevo, mi faceva conoscere privazioni, torture e patimenti nell’assenza più totale di legalità, giustizia e umanità. In quella maledetta isola, dove persino i gabbiani erano infelici per quello che vedevano, nell’estate del ’93 iniziai lo sciopero della fame. Risparmio la descrizione dello stato in cui mi ero ridotto, dico soltanto che, nonostante le mie precarie condizioni, subivo comunque continue provocazioni d’ogni genere da parte del personale di custodia. Vivevo quei giorni terribili con una segreta tristezza, così profonda che mi pareva impossibile vederne il fondo. Più i giorni passavano, più mi sentivo debole, sia nel corpo che nella mente; i morsi della fame erano terribili, mi sentivo isolato e disperato, internato in un mondo escluso dal mondo umano. Una mattina chiesi un bicchiere di caffè, ma mi venne negato, per averlo avrei dovuto interrompere lo sciopero della fame, rimasi stravolto dalla rabbia, non riuscivo a formulare nessun pensiero. Quell’aguzzino che mi aveva negato un bicchiere di caffè (acqua sporca) nelle condizioni in cui mi trovavo, mi aveva fatto capire che non c’era ragione di aspettarsi che un uomo libero fosse moralmente migliore di uno prigioniero e che un uomo prigioniero fosse meno di un uomo libero. Tutti i giorni, con sufficienza, venivo visitato e pesato da un dottore. Da 73 chili, il mio peso forma, ero sceso a 56 chili ed era appena passato un mese e mezzo da quando avevo iniziato lo sciopero della fame. In quelle condizioni sentivo che il cervello non mi funzionava più come prima.

Il mondo mi sembrava capovolto. Le convinzioni, i fatti della mia esistenza mi apparivano alterati, in disordine, qualcosa stava andando in pezzi. Di me non c’era più niente, solo un fantasma che cercava, nonostante tutto, d’essere uomo. Fortunatamente in quel periodo iniziarono i miei processi ed il presidente della Corte di Assise di Massa, sapendomi ancora in sciopero della fame, mi tolse il 41 bis, ma dopo un breve periodo il Ministero di Disgrazia e Ingiustizia me lo rimise. Arrabbiato e deluso, incassai quel nuovo trauma per assimilarlo e riporlo assieme alle molte violenze subite dal mio spirito. Non potevo certo di nuovo iniziare lo sciopero della fame, avevo giurato solennemente alla mia famiglia di non farlo più. Inoltre, sia fisicamente che mentalmente, non ero nelle condizioni di procedere con quell’atroce agonia. Ritornai all’Asinara, dove le cose non erano migliorate, anzi erano peggiorate: soliti pestaggi per lo sfortunato di turno e solito trattamento crudele, disumano ed ingiusto. E così passarono gli anni, pensavo di avere raggiunto il fondo, ma mi sbagliavo, non c’era mai fine al peggio. Mi comunicarono l’inizio dell’isolamento diurno di 18 mesi.

Mi sembrò assurdo, illegittimo, nello stesso periodo ero sottoposto a due misure di rigore, sia l’isolamento che il 41 bis. Avrei dovuto essere sottoposto solo ad una delle due, ma in quella maledetta isola del diavolo non c’era legge. Il tutto era per me ancor più pesante, perché rifiutavo di diventare un vegetale e tentavo in ogni modo di resistere e di conservare la mia identità umana. Dopo cinque anni, finalmente lasciai l’Asinara, dove ho visto tanto, di tutto e di più:uomini trattati alla stregua di bestie da altri uomini.

I nostri aguzzini erano convinti che il male si confonde col bene. Invece non è così, dal male può nascere solo il male.

Carmelo Musumeci

 

Nota degli autori
 
Questo è un libro che corre su vai piani. Uno di essi (non il solo) è quello della riemersione di quando avveniva nel supercarcere dell’Asinara negli anni ’90. Quando vennero riaperte le sezioni di massima sicurezza degli istituti di pena delle isole di Pianosa e Asinara, quelle carceri divennero a tutti gli effetti “carceri speciali”, luoghi dove per anni il diritto e la Costituzione vennero sospesi.

Abbiamo voluto, in conclusione del libro, inserire in una appendice alcune testimonianze di persone detenute, nel corso degli anni ’90, in quelle carceri. La premessa storico-introduttiva a queste testimonianze è di Marcello dell’Anna, che in quegli anni venne detenuto a Pianosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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