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Israele a un anno dal 7 ottobre

A un anno dal massacro del 7 ottobre e dall’inizio del doppio conflitto Israele-Gaza e Israele-Libano (Hezbollah), con corollari in Yemen e a Teheran, un paio di riflessioni si impongono.

La prima riguarda ovviamente la drammatica (prossima) conclusione del primo conflitto, quello scatenato dai miliziani di Hamas ai danni di civili israeliani (e non) ebrei (e non), che si sta concludendo con la prevedibile sconfitta degli islamisti (nonostante la loro, altrettanto prevedibile, vittoria nella battaglia dell’immagine).

La seconda riguarda invece il confine settentrionale dello stato ebraico e della guerra scatenata da Hezbollah con l’inizio dei bombardamenti “in solidarietà con Gaza” fin dall’8 ottobre. Secondo il sistema di alert antimissile israeliano, dal Libano sono piovuti su Israele circa 10mila ordigni di vario tipo e, anche se Israele nel frattempo non è certamente stato con le mani in mano, l’attacco islamista da nord è stato considerato un problema da risolvere solo dopo aver ridotto decisamente le capacità offensive di Hamas a Gaza.

Da qualche giorno le cose sono cambiate e il primo evidente cambio di passo è stata la contemporanea esplosione dei cercapersone in dotazione ai miliziani sciiti. A parte il mistero della intricatissima spy-story di cui ancora si sa ben poco, è evidente che il colpo ha dato un significativo scossone alla struttura militare del movimento e ne ha minato la credibilità oltre che l’efficacia. Hanno fatto poi seguito centinaia di attacchi mirati sui depositi di armi e munizioni preparati da Hezbollah nel sud del paese (in barba alla risoluzione Onu che imponeva lo sgombero delle postazioni del “partito di Dio” a sud del fiume Litani) e, infine, il colpo grosso che ha eliminato, come confermato dalla tv libanese al Manar, il leader stesso di Hezbollah, Nasrallah, mettendo severamente in crisi l’organizzazione islamista e l’assetto strategico che il regime di Teheran ha costruito nel corso di decenni.

La prima riflessione non può dimenticare che nei tunnel di Gaza sono tuttora detenute in cattività decine di ostaggi rapiti un anno fa e che la loro presumibile morte verrà addebitata al governo israeliano per l’intransigenza dimostrata nella trattativa ostaggi vs. cessate il fuoco, mentre la riflessione sulla guerra del Libano non può che evidenziare le notevoli capacità dimostrate dalle forze armate e di intelligence di Israele, capacità di cui si farà vanto il governo stesso presentando i colpi inferti al nemico come conseguenza diretta della propria capacità di gestire l’emergenza su più fronti.

In sintesi il quadro politico che si va delineando nello stato ebraico è un presumibile recupero di affidabilità, in termini securitari, di Benjamin Netanyahu e della sua coalizione di duri e puri dell’estrema destra, dopo il tracollo di credibilità seguito alla incredibile impreparazione dimostrata il 7 ottobre.

Sul versante palestinese questo recupero nei sondaggi della destra israeliana si accompagna alla cruenta, incomprensibile e suicidale azione politica di Hamas che ha portato all’ennesima drammatica sconfitta palestinese sul campo e alla prevedibile evaporazione, forse definitiva, di qualsiasi velleità di poter imporre a Israele un percorso che non sia sempre più al ribasso. Dopo questa guerra perfino la proposta di pace avanzata da Donald Trump, attraverso l’elaborazione di Jared Kushner, nel 2020 – Peace to Prosperity – sembrerà una meravigliosa opportunità ormai perduta. E della classe politica palestinese si potrà dire ancora una volta che “non ha mai perso un’occasione di perdere un’occasione”, come suona la frase irridente attribuita ad Abba Eban nel 1973.

C’è un altro attore che sembra al momento in grave difficoltà: il regime degli ayatollah iraniani.

Sfuttando l’enorme buco nero causato dall’improvvido abbattimento dello stato residuale iracheno di Saddam Hussein per mano del più sciagurato presidente americano, Bush jr., la repubblica islamica non si è fatta sfuggire l’opportunità di creare quel “corridoio sciita” che attraverso Iraq, Siria e Libano, metteva l’Iran direttamente in contatto terrestre con il Mediterraneo. Non accadeva dai tempi del Re dei Re Ciro il Grande che, nell’antichità, liberò gli antichi israeliti dalla prigionia babilonese (e per questo definito “messia” nella Bibbia) e che, in tempi recenti, ha realizzato invece la possibilità di attaccare lo stato ebraico attraverso i suoi alleati in zona, Hamas compreso, pagati, riforniti, armati e addestrati dal regime attraverso l'organizzazione militare dei Pasdaran.

Strategia complessa che se da una parte permetteva all’Iran di diventare la testa di diamante della lotta contro Israele, bypassando in nome dell’antisionismo la storica contrapposizione tra sciiti e sunniti (proprio mentre i regimi arabi stavano scendendo ad accordi di convivenza con lo stato ebraico) – cioè facendo propria l'egemonia sull'intero mondo islamico diventando così un player di livello globale – dall’altra consentiva a Teheran di separare con il suo “corridoio” la prossimità territoriale sunnita tra la Turchia a nord e i regni arabi meridionali. Impedendone una possibile alleanza ai suoi danni. Il “contenimento” dell’Iran (o della Persia) da parte di turchi e arabi è uno dei ricorsi storici dell'intera storia mediorientale che si inserì sui conflitti, ancor prima, di Bisanzio contro i Sasanidi o di Roma contro i Parti.

Oggi, con la Siria ancora stremata dalla lunghissima guerra civile e dal conflitto del regime degli Assad con l'Isis, e con il Libano messo nel mirino dall'esercito israeliano, l'intera architettura strategica di Teheran potrebbe collassare anche senza un attacco diretto all'Iran da parte di Israele (cosa che comunque non si può escludere a priori).

Forse è troppo presto per dirlo, ma si può ipotizzare che il quadro complessivo degli equilibri mediorientali potrebbe essere in procinto di cambiare e non nella direzione che, probabilmente, gli strateghi islamisti avevano pianificato con l'attacco del 7 ottobre: una chiamata alla jihad globale contro Israele supponendo erroneamente che Joe Biden fosse troppo distratto dalla guerra in Ucraina o dalle elezioni prossime (o anche dall'età e da uno stato mentale non lucido) per intervenire.

Foto Wikimedia

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