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Israele-Hamas: il nuovo round

Eccoci di nuovo. Bastava aspettare un po’ e prima o poi il conflitto storico del vicino oriente sarebbe riemerso dalla sua apparente tranquillità, facendo balenare la possibilità che possa riesplodere in tutta la sua violenza.

Per settimane ci sono state le solite scaramucce, mai finite del tutto nonostante una sorta di armistizio tra Israele e Hamas, ma già all’inizio di novembre gli eventi avevano preso una brutta piega, quando è stata attaccata una jeep di militari israeliani di pattuglia lungo il confine che separa la Striscia dal territorio dello stato ebraico.

 

Come è facile immaginare una cosa è lanciare un razzo che di solito cade nel deserto, provocando allarme e stress, ma niente di più; altra cosa è colpire dei soldati delle IDF, le forze armate di Israele. La reazione questa volta è stata ovviamente più dura e un ragazzino di Gaza è stato ucciso.

La controreazione rabbiosa di Hamas non si è fatta attendere ed oltre 100 razzi sono stati sparati nel giro di 24 ore nel fine settimana colpendo in modo leggero alcuni civili israeliani, ma costringendone migliaia a rifugiarsi nei bunker per giorni e notti.

Fino all’attacco mirato di un missile israeliano che ha centrato l’auto su cui viaggiava il capo delle forze armate di Hamas a Gaza, Ahmed Al-Jabari, il numero due dell’organizzazione palestinese, mandante di tutti gli attacchi contro Israele e del rapimento del soldato Gilad Shalit. Raramente Israele si è spinta - o è riuscita - a colpire così in alto nella gerarchia di Hamas e il colpo sembra significativo della volontà del governo di arrivare ad una nuova resa dei conti a Gaza. E non manca chi ipotizza un cinico calcolo di tornaconto elettorale del governo Netanyahu nell’improvviso innalzarsi della tensione.

Ma dall’inizio dell’anno fino ad ottobre sono piovuti sul territorio israeliano circa 800 tra razzi e colpi di mortaio contro i 680 di tutto il 2011; quindi una media di 80 al mese, quasi tre al giorno, tutti i giorni, per dieci mesi consecutivi. Fino ai morti di ieri. Anche se l’aviazione israeliana ha continuato a colpire con continuità, cercando di neutralizzare le rampe di lancio mobili dei razzi Qassam, non era difficile pensare che prima o poi sarebbe arrivata una reazione ben più dura.

Reazione - l’uccisione del capo militare di Hamas - che curiosamente Umberto Di Giovannangeli sull’Unità definisce “ben oltre il diritto di autodifesa di Israele”.

L’eliminazione di Ahmed Al-Jabari è sicuramente grave e sicuramente non rimarrà senza risposta (ad oggi infatti sono circa 274 i razzi sparati verso le cittadine israeliane prossime al confine dopo l’uccisione dell’alto esponente di Hamas, portando il totale dei colpi oltre soglia mille, compresi i razzi di fabbricazione iraniana su Tel Aviv) il che a sua volta provocherà un incremento di reazione delle forze armate israeliane, fino ad uno scontro aperto dagli esiti imprevedibili: il tipico vortice che attanaglia da sessant’anni il vicino oriente.

Ma oggi c’è una novità, dal momento che al governo del Cairo non siede più un dittatore proveniente dalle alte sfere militari egiziane, che dopo le due batoste del ’67 e del ’73 sono storicamente avverse ad altre avventure belliche contro Israele. Adesso al governo c’è un esponente della Fratellanza Musulmana che è la fonte originaria di molti movimenti islamisti, fra cui anche Hamas. Difficile che l’Egitto possa anche solo ipotizzare uno scontro militare con Israele, ma è difficile anche pensare che rimanga inerte in una situazione sempre più complessa, che distoglie lo sguardo di tutto il mondo arabo dalla guerra civile siriana riportandolo verso il conflitto storico tra israeliani e palestinesi.

E’ possibile che il governo egiziano si decida ad aprire definitivamente il valico di Rafah, interrompendo di fatto quello che era il più sottaciuto - dalla propaganda filopalestinese - ma anche il meno comprensibile ostacolo alla definitiva “apertura” della Striscia dopo sette anni di chiusura israelo-egiziana. Oppure che opti per uno scontro non convenzionale con lo stato ebraico lasciando via libera, più di quanto non accada già ora, alle operazioni terroristiche dal Sinai. Esponendosi alle reazioni di Israele.

La situazione rischia così di scivolare rapidamente verso uno scontro aperto anche sul confine egiziano - con il richiamo dei riservisti in Israele e l'afflusso di truppe egiziane verso il Sinai sembrano presagire - così come il reciproco scambio di colpi sul Golan potrebbe preludere ad un nuovo conflitto con la Siria di Assad, velatamente (ma non tanto) interessata ad esportare i propri problemi interni verso l’esterno: Turchia, Libano, o, tanto più, verso il nemico storico del mondo arabo, capace di catalizzare i rancori e l’attenzione di tutto l’Islam.

Come sempre il problema palestinese si riflette nel vero problema del vicino oriente: l’esistenza dello stato ebraico ritenuto ancora, dopo sessant’anni, un tumore maligno da estirpare come si affanna a spiegare a cadenza regolare il leader di Teheran, Ahmadinejad.

Stranamente lo stillicidio di colpi provenienti da Gaza negli ultimi mesi, e i colpi di mortaio provenienti dalla Siria o gli incidenti ai confini libanese e siriano causati dalle proteste in occasione della Naqba, non sono ricordati se non di sfuggita nel novero delle ricostruzioni di cronaca di questi giorni, come se cancellando la parte scomoda della realtà, la “politica estera” attuata dai palestinesi di Hamas o dalle varie sigle dell’estremismo islamista, il complicato puzzle mediorientale magicamente potesse trovare un’esemplare chiarezza manichea: di qua i buoni e di là i cattivi.

Poi ci si stupisce se anche un moderato pacifista come Abraham Yehoshua fa la sua dichiarazione di guerra: la presa d’atto di uno stato di belligeranza che data dal 2005 quando Israele decise unilateralmente il ritiro dalla Striscia. “La gente di Gaza sta partecipando alla guerra contro Israele: abbiamo ritirato i coloni, siamo andati via, perché continuano a spararci ? E’ la gente di Gaza che ha eletto Hamas, un governo responsabile delle sue azioni”.

La chiamata di correo dello scrittore contro la “gente di Gaza” ha un significato gravissimo e inusitato in uno che ha sempre cercato di proporre soluzioni di convivenza e di riconoscimento reciproco. “Gli israeliani adesso pensano che se si ritireranno completamente dalla Cisgiordania accadrà lì quello che già accade a Gaza. E che ci ritroveremmo i missili a Gerusalemme o a Tel Aviv. Il comportamento di Hamas è uno dei più grandi ostacoli alla pace fra i palestinesi e gli israeliani”. Come se avvesse previsto l’attacco di oggi con i missili caduti proprio nell’area di Tel Aviv.

Il ritiro da Gaza avrebbe potuto essere il momento iniziale di pianificazione e sviluppo di uno stato libero e l’avvento dei Fratelli Musulmani in Egitto avrebbe potuto significare la fine dell’isolamento della Striscia; ma entrambe sono state occasioni perdute, travolte dalla logica del conflitto, che difficilmente torneranno.

Dare credito ad Hamas si è rivelato molto presto come l’ennesima follia palestinese. Che non porterà ad uno stato, che non porterà ad un riconoscimento internazionale, che non porterà al consolidamento delle strutture civili, politiche e amministrative, ma che porterà di nuovo all’orrore di uno scontro militare impari di cui la cittadinanza civile, già ampiamente vessata dall’arroganza degli islamisti, sarà di nuovo vittima.

Il tutto accompagnato dalle ripetute proteste contro la violenza israeliana, come se mille missili piovuti in dieci mesi sulle teste di civili israeliani fossero invece manifestazioni di affetto.

Israele è in guerra con Gaza, dice Yehoshua; e la stessa cosa disse il rapporto Palmer, inviato ad indagare sull’incidente della Mavi Marmara, sostenendo la legittimità secondo il diritto internazionale del blocco navale israeliano contro una “entità” chiarissimamente “ostile”.

Bastava aspettare. I falchi dominano ancora sui cieli del Vicino Oriente, di qua e di là dal confine provvisorio che delimita lo stato ebraico. Intanto, da lontano, l'Iran osserva e prende appunti.

 

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