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Io li seguii e andai in guerra con i Čiriklé: il lungo viaggio dei romaní

Prima parte

 

 

«Na sas-ma pándra deś-u-oxtó berś. Vjen-le koj trin raj: “Ne divés o vavér véla koj e maréna tu! Jau mánča, véssa pren le bérge”. Me gjom lénča e gjal kerdóm o koribén maskarál le čiriklé. Dáva ma pándra ne divés ke i kasténgeri kaménas pándra te len Alba. Jamén mukjám panč o śou mulé koj, ma na naśjám. Da maré rik na nakjén-le.»

I linguisti non hanno dubbi sulla classificazione di questa strana lingua. Appartiene all’ampia famiglia indo-ariana, come tutte le lingue parlate nel nord del subcontinente indiano: India, Pakistan, Bangladesh, Nepal, Kashmir. Come le altre lingue della famiglia, deriva dal sanscrito, la lingua classica dell’India nella quale furono redatti i testi sacri dell’induismo e del buddhismo. Il brano racconta di un giovanissimo combattente che insieme ai suoi compagni d’armi, i čiriklé, tenta di difendere una città chiamata Alba dall’assedio dei temibili kasténgeri: «Non avevo ancora diciott’anni. Arrivarono tre uomini: “Un giorno o l’altro verranno qui e ti uccideranno! Vieni con noi, seguici sulle montagne”. Io li seguii e andai in guerra con i čiriklé. Ricordo ancora il giorno in cui i kasténgeri tentarono di riconquistare Alba. Perdemmo cinque o sei uomini, ma non indietreggiammo. Da dov’eravamo noi non passarono.»

Non si tratta di un estratto del Mahābhārata o del Ramayana, non stiamo parlando di antichi eroi di epopee lontane nel tempo e nello spazio: i čiriklé e i kasténgeri (letteralmente, “gli uccellini” e “i bastonatori”) sono, rispettivamente, i partigiani e i fascisti. La città di Alba di cui si parla è la capitale del tartufo e del Nebbiolo, nelle Langhe cuneesi. Il giovanissimo combattente è Amilcare Debar, detto “Taro”, partigiano sinto della 48ª Brigata Garibaldi, comandata da Pompeo Colajanni. Il brano è un estratto del racconto sulla Resistenza che Taro Debar amava narrare ai giovani nel dopoguerra, nella trascrizione fattane negli anni ’80 dal linguista Sergio Franzese. La lingua si chiama romanés o romaní ed è l’idioma degli zingari. Questa, in particolare, è la variante dialettale parlata dai sinti piemontesi, gli zingari delle regioni del nord-ovest dell’Italia. L’altra variante di romanés parlata nel nostro paese è il rom abruzzese, la lingua madre di Santino Spinelli, il primo e sinora unico professore universitario di lingua e cultura romaní in Italia. Entrambe le lingue si parlano nel nostro paese da non meno di cinque secoli, eppure sono state escluse dalla legge 482 del 1999 sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche.

Il popolo che chiamiamo zingari o rom emigrò dall’India del nord oltre mille anni or sono. La loro lingua costituisce la principale documentazione di cui disponiamo sulla loro millenaria migrazione attraverso l’Eurasia: nel corso del viaggio, il romanés si arricchì di voci prese dal persiano, dal curdo, dall’armeno, dal greco e, infine, da tutte le lingue del continente europeo. Questi prestiti lessicali si sono stratificati nel vocabolario romanés proprio come le fondamenta di edifici di epoche diverse si stratificano nel sottosuolo di una città, permettendoci di tracciare sommariamente sulla cartina il loro itinerario. Non si conoscono le ragioni del loro esodo dall’India. Gli antenati dei rom erano un gruppo di musicisti e danzatori inviati ad allietare la corte di un re persiano? Oppure un reparto militare rimasto isolato dietro le linee nemiche? O una tribù di fabbri esperti nella rinomata arte metallurgica indiana? O un gruppo di contadini sfuggiti da una terribile carestia? O una setta indù eretica in fuga dalle persecuzioni religiose? Non sapremo mai quale di queste ipotesi è quella giusta, e non possiamo nemmeno escludere che lo siano tutte, nel senso che il popolo zingaro potrebbe essersi formato in terra persiana dalla fusione di ondate migratorie diverse, unite dalla comune origine indiana. La loro prima apparizione storica certa è nella regione di Bassora, nel sud dell’attuale Iraq, dove fra il IX e il X secolo d.C. il popolo degli zott (uno dei nomi ancor oggi usati in Medio Oriente per indicare i rom) costituì un proprio regno indipendente occupando uno snodo strategico della Via della Seta, l’antica carovaniera che unisce l’Europa alla Cina. Gli zott furono presto sconfitti militarmente dal potente califfato di Baghdad e deportati in massa al nord, nelle regioni più impervie del Kurdistan, al confine con l’impero bizantino.

Da qui gli antenati dei rom penetrarono nell’Asia Minore, che attraversarono lentamente fino a raggiungere l’odierna Romania nel XIV secolo. E lì furono ridotti in schiavitù. Inizialmente di diretta proprietà della corona, nel corso dei secoli gli schiavi zigani furono ceduti alla piccola nobiltà feudale rumena e ai monasteri cristiani, che li adibirono ai più umili lavori agricoli in condizioni di sfruttamento bestiali. La schiavitù dei rom rumeni, che durò fino alla seconda metà del XIX secolo, è da sempre una delle pagine meno conosciute della storia europea, tanto che nel 1837 lo storico rumeno Mihail Kogălniceanu scriveva: «Gli europei fondano società filantropiche per chiedere l’emancipazione degli schiavi delle Americhe, ignorando che nel loro stesso continente oltre cinquecentomila zigani vivono in stato di schiavitù e altri duecentomila sono mantenuti in condizioni barbare». Al loro arrivo in Europa ai rom fu dato il nome di un’antica setta eretica dell’Asia Minore, gli Atsinganoi, il cui nome probabilmente a quel tempo veniva affibbiato indistintamente a chiunque provenisse dalle sponde asiatiche del Mar Nero. Dal nome di questa setta derivano i nostri zingaro e zigano, e relative varianti nelle diverse lingue europee.

Un altro gruppo di rom, forse schiavi fuggiti dai principati rumeni, forse una diversa ondata migratoria proveniente dall’Asia Minore, si attestò nel sud della penisola balcanica, in Grecia, concentrandosi in una zona del Peloponneso anticamente nota come Piccolo Egitto. Dal nome di questa regione derivano i nomi inglese e spagnolo degli zingari, rispettivamente Gypsy e gitano, entrambe alterazioni di Ægyptius. Agli inizi del XV secolo, gli zingari del Piccolo Egitto lasciarono la loro terra e percorsero tutta la penisola balcanica fino a giungere nella Svizzera e nell’Italia settentrionale. A coloro che incontravano raccontavano che un principe (o un vescovo) li aveva costretti a un pellegrinaggio di espiazione della durata di sette anni, grazie al quale sarebbe stata loro perdonata l’abiura della religione cristiana e sarebbero stati riaccolti in seno alla Chiesa. Tale racconto, che era attestato da salvacondotti civili ed ecclesiastici che i loro capi portavano con sé, contiene probabilmente almeno un fondo di verità: le repentine conversioni di intere popolazioni dal cristianesimo all’islam, e viceversa, erano un fenomeno frequente nel periodo delle lotte fra i turchi e i bizantini per il predominio sui Balcani. In ogni caso, nell’Europa del tempo quello di pellegrini era uno status privilegiato, che esentava i viaggiatori dal pagamento di dazi e pedaggi e obbligava le città e i villaggi a fornir loro assistenza e ospitalità. Il presunto pellegrinaggio durò perciò ben più dei sette anni previsti: gli antenati degli odierni zingari occidentali girarono per l’Europa per oltre un secolo, riscuotendo a ogni tappa elemosine e prebende, e raggiungendo ogni angolo del continente, dalla penisola iberica a quella scandinava, dalla Scozia alla Toscana. Ma l’inganno non poteva durare per sempre e, a partire dagli ultimi decenni del XV secolo, prima i cantoni svizzeri e poi tutti gli altri stati dell’Occidente emanarono leggi che vietavano agli zingari di entrare nelle città o di accamparsi fuori le mura; era nato quello che, non del tutto a ragione, è considerato il tratto più caratteristico degli zingari: il nomadismo. E con esso, la tradizionale ostilità dei popoli stanziali. Venuto meno lo status di pellegrini, gli zingari presero a guadagnarsi da vivere dapprima come soldati di ventura, poi girando per le fiere praticando quei mestieri girovaghi che ben conosciamo: il commercio dei cavalli, gli spettacoli viaggianti, la divinazione, la piccola metallurgia.

Questo popolo è dunque noto in Europa con due nomi di origine greca, zingaro e gitano, che rimandano rispettivamente all’Asia Minore e al Peloponneso, cioè alle zone da cui i popoli europei li videro arrivare. Nel corso dei secoli furono chiamati con molti altri nomi che riflettevano la loro provenienza immediata: tartari, ungheresi, bulgari, austriaci, tedeschi, turchi, algerini, serbi, polacchi… In Francia furono a lungo chiamati boemi, e ancor oggi chiamiamo bohémiens quei giovani artisti che conducono una vita instabile e raminga. In Spagna furono invece considerati greci; nello spagnolo d’America, il termine griegos si alterò in gringos e finì per denotare genericamente tutti gli stranieri, e in particolare i nordamericani di lingua inglese.

Ma come chiamano se stessi gli zingari, in lingua romanés? Il termine più noto è ovviamente rom (femminile romní, plurale romá e romnjá), che oggi tende a imporsi come sostituto politicamente corretto della parola “zingaro”. Politicamente corretto, forse, ma non altrettanto corretto da un punto di vista storico e antropologico poiché, a rigori, il termine rom indica solo gli zingari dell’area balcanica. Nel romanés parlato nel resto d’Europa, le parole rom e romní mantengono il loro significato letterale di “uomo” e “donna”. Tutti gli zingari d’Europa concordano però nel chiamare la loro lingua con l’avverbio romanés (letteralmente “umanamente”, sottinteso il verbo “parlare”) oppure con l’aggettivo romaní (letteralmente “umana”, sottinteso il sostantivo “lingua”). Quest’ultimo termine è quello oggi preferito anche per riferirsi all’etina, in luogo di “zingaro” e degli altri nomi tradizionali, sentiti da alcuni come impropri o dispregiativi. I romaní dell’Europa occidentale usano per se stessi denominazioni varie: quelli francesi si chiamano manuś o manouches, un altro termine che preso alla lettera significa “uomini, persone”; quelli scandinavi si autodefiniscono kalé, cioè “i neri”, lo stesso termine che, adattato in caló o calão, è usato anche dai gitanos spagnoli e portoghesi. I gypsies delle isole britanniche chiamano se stessi romanićal o romanichels, unico casofra i romaní occidentali di autodenominazione derivata dalla radice rom. Infine, i romaní dei paesi di lingua tedesca e delle zone vicine (inclusa buona parte dell’Italia centro-settentrionale) chiamano sé stessi sinti: una voce di etimologia oscura che alcuni accostano alla regione indiana del Sindh, che per tale ragione è considerata una delle più probabili zone d’origine del popolo romaní.

Una babele di nomi, dunque, nessuno dei quali, per una ragione o per l’altra, è del tutto appropriato per indicare questo popolo nel suo complesso. In Italia molti credono di tagliare la testa al toro dicendo “nomade”: un termine non privo di connotazioni romantiche e che, soprattutto nei mondi della politica e del giornalismo, è considerato il non plus ultra del politically correct, oltre che un comodo sinonimo da alternare a “rom”. Ma, come abbiamo visto, tale sinonimia è quanto meno dubbia, poiché i rom propriamente detti, cioè i romaní dell’area balcanica, fino a poco più di un secolo fa versavano in stato di schiavitù o erano umili braccianti agricoli e, di conseguenza, di norma non hanno mai conosciuto il nomadismo né alcunché che gli somigli. La tradizione del nomadismo si è sviluppata fra i discendenti di quei “pellegrini” del Piccolo Egitto che, nel corso del Quattrocento, percorrevano tutta l’Europa occidentale. Ma nemmeno fra i romaní occidentali il nomadismo è un tratto universale: i calós iberici, per esempio, hanno dovuto abbandonare il nomadismo (e molte altre tradizioni, inclusa la stessa lingua romanés) in seguito a una dura politica di assimilazione forzata portata avanti dalla corona spagnola nel XVII secolo. D’altra parte, il nomadismo nell’Europa occidentale non è prerogativa dei romaní, né è stato inventato da loro: esistono altri popoli che tradizionalmente vivono in carrozzoni esercitando mestieri girovaghi, quali i caminanti della Sicilia, i travellers dell’Irlanda, gli Jenische e i Reisende della Svizzera e della Germania. Tali gruppi sono spesso chiamati anch’essi zingari dai popoli stanziali, ma sono definiti gagé (“non zingari”) dai romaní stessi. Il nomadismo era una prassi comune nell’Europa feudale, dove aveva una sua precisa funzione sociale: quella di distribuire beni e servizi in zone rurali non altrimenti raggiunte dalla rudimentale rete commerciale del tempo. I romaní del Piccolo Egitto non fecero altro che inserirsi in questa nicchia economica preesistente. Anche fra i romaní occidentali, comunque, il nomadismo è ormai per lo più un ricordo del passato, una foto in bianco e nero che ritrae la bisnonna su un carrozzone trainato da cavalli. In Italia gli unici zingari mantenutisi parzialmente nomadi sono le poche famiglie sinte che portano in giro i circhi e i luna park; i nomi di alcune di queste famiglie non richiedono presentazioni: Orfei, Togni, Medini… Molti manouches francesi hanno da tempo riconvertito i tradizionali mestieri itineranti di mercanti di cavalli e maniscalchi in quello di concessionari d’auto: un commercio più moderno e redditizio, ma per sua natura ben poco nomade.

 

Marco Cimarosti per “Segnali di Fumo – il magazine dei diritti umani”

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