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Intervista a Ilaria Cucchi. Stefano, Aldrovandi, Uva: morire di carcere

A due anni dalla morte di Stefano Cucchi continua la battaglia della sorella Ilaria per scoprire la verità su quei sei giorni di detenzione: il libro, il documentario e la nascita di una Associazione per dar voce alle vittime e un supporto alle famiglie

20: gli euro di hascisc venduti per i quali è finito in carcere

31: gli anni al momento della morte

147: le persone morte nel 2009 in carcere, prima del 22 ottobre
 
177: le persone morte in carcere nel 2009
 
6: i giorni di detenzione che lo hanno portato alla morte.
 
“La morte di Stefano è un delitto di Stato. Comunque sia andata. All’inizio i pubblici ministeri che indagavano su su quel decesso hanno ipotizzato l’omicidio, preterintenzionale e colposo. Poi si sono corretti contestando una serie di altri reati, dalle lesioni alle omissioni, dal favoreggiamento fino all’abbandono di persona incapace di provvedere a se stessa. Cambia poco. Anche se tecnicamente il termine “omicidio” è scomparso dai capi di imputazione, quella vicenda non è stata né un suicidio né una disgrazia, bensì la conseguenza di comportamenti altrui che hanno spezzato la vita di un giovane uomo, tossicodipendente e detenuto” (“Vorrei dirti che non eri solo”, dalla prefazione di Giovanni Bianconi).
 
“Stefano non era un santo, né un 'bravo ragazzo' secondo i canoni tradizionali. Era una persona buona e generosa, con dei problemi sfociati nella droga e in altre disavventure, ma cresciuto ed educato in una famiglia di persone perbene; vissuta nel rispetto della legalità e delle regole, ma soprattutto delle istituzioni e con piena fiducia nei suoi rappresentanti. Questa è sempre stata la famiglia Cucchi. E quando Stefano ha avuto le sue difficoltà, nessuno di noi ha mai pensato di accusare atri, o di prendersela con lo 'Stato' che lo perseguitava. Gli siamo sempre stati al fianco, ma senza assecondare qualsivoglia forma di vittimismo”.
 
A parlare è Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto in circostanze ancora da chiarire il 22 ottobre del 2009, dopo 6 giorni di detenzione per aver venduto 20 euro di hascic. Ilaria vuole scoprire la verità e lo sta facendo da due anni, da quando a casa Cucchi si presentò un ufficiale giudiziario con la notifica dell'autorizzazione all'autopsia del fratello, perché così fu comunicata ai familiari la morte di Stefano.
 
È stato da poco realizzato e presentato al Festival internazionale del Film di Roma il documentario “148 Stefano. Mostri dell’inerzia”, di Maurizio Cartolano, distribuito dal 30 novembre con Il Fatto Quotidiano. Cosa rappresenta per voi questo film?
 
“Il film per noi è un documento importantissimo, uno strumento tramite il quale la verità potrà sopravvivere a tutte le ipocrisie che stiamo vivendo, in particolare le ipocrisie di questo processo”.
 
Come è nata l’idea?
 
“Non è stata una nostra idea, è stato il giornalista Giancarlo Castelli, molto vicino a questa vicenda, a pensare a questo documentario come strumento di denuncia… E lo è, come lo sono tutti gli strumenti che abbiamo usato sino ad ora. Tutte le denunce pubbliche, il fatto di rivolgerci sempre all’opinione pubblica, ai mezzi di informazione: pubblicare le foto e rendere noto a tutti il dolore è stata una scelta fatta sin da subito. Anche mettendoci in discussione. Solo in questo modo la verità non rischia di essere sotterrata. Nonostante, per una famiglia, tutto questo sia molto difficile e molto doloroso… Comunque, grazie a questa scelta, lo stesso giorno del funerale e della sepoltura, lunedì 26 ottobre, la morte di Stefano è divenuto un caso nazionale con la denuncia del professor Luigi Manconi, presidente dell’Associazione “A buon diritto” che si era molto impegnata sulla vicenda di Federico Aldrovandi e altri casi simili, e di Patrizio Gonnella dell’Associazione Antigone”.
 
Raccontando, rendendo pubblica la vicenda, non avete pensato che avreste corso il rischio di esporvi a facili critiche, a considerazioni dettate dall’ipocrisia o dal luogo comune, dal momento che Stefano aveva avuto problemi con la droga?
 
“La nostra scelta è stata, nel momento in cui chiedevamo la verità, di non nascondere la verità. Non abbiamo mai voluto farlo passare come un eroe o una persona perfetta. Nonostante fosse un fratello meraviglioso. Sicuramente aveva avuto delle debolezze, aveva commesso degli sbagli che gli avevano rovinato la vita, ma questo non c’entra niente con ciò che gli è capitato dopo. Stefano non è morto perché a diciotto anni si faceva le canne e più avanti è diventato un tossicodipendente, come qualcuno vorrebbe far credere. Noi siamo onesti e la stessa onestà la pretendiamo da parte di chi ci deve dare le risposte”.
 
Ma molti dicono che se l’è cercata…
 
“Nell’immaginario collettivo scatta il meccanismo di autodifesa: a lui è capitato, perché se l’è cercata… avviene sempre così in queste vicende: iI linciaggio della vittima. Il primo processo è contro il morto e la sua famiglia. Oggi noi stiamo vivendo nelle aule di tribunale, dove fanno le domande sulla sua cagnetta, il suo carattere e ci si oppone quando vengono poste domande importanti, sulle cose fondamentali. Dall’esterno questo non si percepisce. È molto doloroso e difficile da accettare per una famiglia che è lì. Perché noi crediamo nella giustizia, anche se ciò che ci viene dato è un processo ipocrita dove si parla di tutt’altro, dove si parla di lesioni lievi. Sembra un processo per una banale colpa medica. E questo è dovuto ad una consulenza di un perito disonesto. Ci vogliono far credere che Stefano sarebbe morto comunque, anche nel suo letto di casa… Dicono che quel pestaggio non ha portato alla morte. Dicono che si è ammalato dopo l’arresto. Si vuole negare la realtà, le fratture”.
 
Quale è l’ostacolo maggiore che state riscontrando?
 
“L’ostacolo maggiore è sconfiggere proprio il pregiudizio. Quando la gente guarda queste vicende, le guarda sempre in maniere scettica. È una forma di autodifesa collettiva. Quando si individua nell’altro una persona diversa, non si osserva la vicenda con sguardo limpido. Ma il punto, in questa vicenda, non è questo”.
 
Quali sono i tempi previsti per il processo?
 
“I tempi non li posso ipotizzare. Non ero mai entrata in un’aula di tribunale. Ora stiamo ascoltando i testimoni ed è tutto diverso da come lo immaginavo. Ci sono sei giorni nella vita di mio fratello - una vita che abbiamo sempre condiviso - e sono sei giorni di vuoto. Non conosco le sue sensazioni, non so cosa abbia provato. E per noi che abbiamo condiviso tutto, sarebbe stato fondamentale condividere proprio quei momenti. E invece di quel frangente brevissimo non sappiamo nulla di ciò che è successo. Non sappiamo le sensazioni. Quando ascolto i testimoni, mi aspetto di trovare quelle sensazioni. Invece percepisco queste udienze come un momento in cui ognuno cerca di difendere se stesso. Ci sono infermieri dell’ospedale Sandro Pertini dalle cui dichiarazioni si ricava che Stefano sia stato sempre zitto. E nessuno ha avuto la curiosità di vedere cosa avesse sulla schiena, come stesse quel ragazzo, di spostare il lenzuolo che lo copriva”.
 
Nel 2010 hai pubblicato un libro: “Vorrei dirti che non eri solo”, edito dalla Rizzoli. Cosa ti ha spinto a scriverlo?
 
“All’inizio, quando mi è stato proposto, ero abbastanza perplessa. Ma poi ho capito che il libro sarebbe stato importante, perché in quel modo avrei potuto dar voce a ciò che era capitato e ho capitato che l’unico strumento che abbiamo come famiglia è rivolgerci al pubblico. Parlarne. È inutile negarlo. Il processo mediatico è più importante di quello nelle aule. Fino a due anni fa ignoravo questa realtà. E ora ho capito che sono cose che potenzialmente possono succedere a tutti. Ed è giusto che tutti ne vengano a conoscenza. Ci sono tantissime storie come la nostra, anche peggiori e tante non sono note a nessuno. Ci sono moltissime famiglie che non giungeranno mai alla verità. Molte non riescono neanche a portare il caso in tribunale. E La cosa terribile è che la gente non sa niente”.
 
Quali progetti avete?
 
“Io ed altre persone che mi sono vicine, come Patrizia Moretti (mamma di Federico Aldrovandi, 18 anni, studente di Ferrara ucciso nel settembre 2005 dopo essere stato fermato dalla Polizia – Ndr) e Lucia Uva (sorella di Giuseppe Uva, 48 anni, morto nel 2008 dopo essere stato arrestato dai Carabinieri perché leggermente ubriaco – Ndr), vorremmo dare vita ad una associazione. Già in realtà lo siamo. Siamo uniti e cerchiamo di trarre la forza da questa unione. Vorremmo diventare associazione proprio per dare un supporto alle famiglie che, in quei momenti, non sanno a chi rivolgersi. Avere un punto di riferimento è importante. Costituire un esempio. Vale la pena provare. E credo che, al di là di come andrà il processo, abbiamo già vinto. Loro potranno dire ciò che vogliono. Ma la gente lo sa cosa è successo”.
 
 
 
Quale sarà il nome dell’associazione?
 
“Abbiamo scelto “Le loro voci”, perché noi vogliamo essere la voce dei nostri cari”.
 
La politica come vi è stata vicina?
 
“Si dice spesso che la politica non si interessa ed è vero per molti versi. Ma nella vicenda di mio fratello c’è stato un grande interesse da entrambi gli schieramenti, sia di destra che di sinistra. Forse proprio perché da subito ci siamo mossi con la pubblicazione delle foto. Forse si sono resi conto che era vero ed era atroce ciò che era capitato. Immediatamente, infatti, hanno costituito un comitato per la verità su Stefano Cucchi. Ed è stato un segnale importante”.
 
Cosa vorresti dire a Stefano?
 
“Io vorrei dirgli che spero che lo sappia ora che non sapevamo cosa stesse accadendo. Lui davvero non era solo e noi non lo abbiamo abbandonato”.
 
Cosa vorresti che lui dicesse?
 
“Quello che vorrei fargli dire è che, nonostante il pregiudizio, nonostante gli errori, era una persona, un essere umano che aveva una vita, che aveva ancora tanto da dare. E poi che, alla fine, proprio chi doveva proteggerlo, tutelarlo e punirlo secondo la nostra la legge gli ha tolto ogni speranza di futuro. Voglio che Stefano rappresenti questo nella testa della gente. Credo che ogni cosa che ci succede ha un senso, sempre. Il senso nel nostro caso potrebbe essere questo: aprire un varco. Ciò che è capitato a lui deve servire preché non capiti ad altri. Forse è un'utopia ma spero che si realizzi”.
 
 
 
La vicenda
 
Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi viene arrestato per droga dai carabinieri al parco degli Acquedotti di Cinecittà a Roma. I carabinieri dalla caserma di Capannelle, quella sera stessa, insieme a Stefano Cucchi, vanno a perquisire la casa dei genitori, a Torpignattara e i genitori lo vedono in ottime condizioni di salute. Passa la notte a Capannelle e alle 4.00 lo trasferiscono in una caserma a Tor Sapienza. Alle 5.00 viene chiamato il 118 perché il ragazzo si sente male. L’infermiere del 118 non riesce a visitare Stefano che pare abbia ecchimosi sotto gli occhi.
 
Il 16 ottobre 2009 viene portato in Tribunale per la convalida dell’arresto. Uno dei carabinieri che lo accompagna riferirà al giudice di avere visto già da quel momento segni sulla faccia del ragazzo. Viene portato in aula dove il padre vede subito che il figlio ha la faccia gonfia. Il giudice non concede gli arresti domiciliari. Stefano non sta bene. Viene chiamato anche un medico del tribunale a cui dice di avere dolori alla schiena. Il medico vede le ecchimosi. Viene portato a Regina Coeli. Il medico di turno del carcere, Rolando Degli Angioli, dopo averlo visitato, si accorge subito della gravità della situazione. Dispone il ricovero all’ospedale Fatebenefratelli. Firma la richiesta alle 15.45 ma viene portato in ospedale dopo le 19.00. Al Fatebefratelli gli riscontrano la frattura di due vertebre. Lui, firma l’uscita per tornare in carcere.
 
Il 17 ottobre 2009, peggiorate le sue condizioni, viene portato di nuovo al Fatebenefratelli. Confermata della diagnosi, viene trasferito al reparto penitenziario dell’ospedale Pertini, che non è idoneo per patologie acute come quelle di Stefano Cucchi. I sanitari del Pertini non lo accettano chiedendo che la responsabilità del ricovero se la assuma un dirigente dell’amministrazione penitenziaria. Viene chiamato il dottor Marchiandi, il quale va di corsa al Pertini dove il medico di turno, per accettare il ragazzo, sottopone un documento, che firma, in cui c’è scritto che Stefano Cucchi sta bene, e non c’è nessuna patologia grave... I familiari per avere notizie sullo stato di salute del figlio cominciano una trafila burocratica impeditagli dalle differenti informazioni fornite sia dagli agenti che sono all’ingresso del Reparto sia dal personale sanitario.
 
Il 22 ottobre 2009, dopo 6 giorni in cui i familiari non hanno ancora notizie sul motivo del ricovero del figlio, un carabiniere notifica alla famiglia di nominare un perito di parte per l’autopsia. Stefano è morto.
 
 
 
 
“148 Stefano. Mostri dell’inerzia”: il documentario di Maurizio Cartolano
 
“148 Stefano. Mostri dell’inerzia, è un documentario ad argomento sociale, di sessanta minuti che unisce elementi di linguaggio visivo tradizionale ad altri non convenzionali.
 
Le riprese dei testimoni narranti, e degli spazi urbani della città di Roma, dove i fatti sono avvenuti, sono alternati a drammatizzazioni ricostruite con la tecnica del rotoscoping, della videografica e con l’ausilio di voci fuori campo che diventano un tappeto sonoro alle visualizzazioni. L’uso dell’animazione, ricostruisce alcuni momenti, i principali, degli ultimi giorni della vita di Stefano dall’arresto fino alla sua morte, suggestionando con la sua figurata ‘irrealtà’ di bianchi, neri e rossi un irrinunciabile rispetto della sua immagine nella tragedia.
 
La storia della morte di Stefano, viene rappresentata con una struttura narrativa ad incastro, dove diversi temi fattuali vengono narrati spontaneamente senza la proposta di domande in ‘campo’, in un tempo rappresentabile idealmente in un ascolto diretto del testimone-spettatore; come un incontro personale e frontale con chi ha vissuto quel tempo e che durante la visione sta ripercorrendo i momenti della storia, per offrirli ad un ascoltatore confidenziale. L’utilizzo del primo e del primissimo piano, sono caratterizzanti la lettura principale della narrazione, per portare lo spettatore quanto più vicino all’emotività ed agli occhi dei testimoni.
 
Le settanta brevi sequenze che completano il racconto sono raccordate in soluzioni audio e video che alternano lo stacco netto alle dissolvenze-assolvenze a nero, insieme ad accompagnamenti musicali originali. La telecamera alterna riprese statiche in grado di offrire maggiore concentrazione verso l’ascolto, ad altre effettuate a ‘mano’, simili ad una reale soggettiva e capaci di veicolare uno sguardo emozionale che riporti lo spettatore nel reale spazio profilmico.
 
Mi sono posto di visualizzare la storia come testimone tra i testimoni, ricostruendo in montaggio, come in un mosaico narrante, alcuni dei molti aspetti della vicenda di Stefano Cucchi che, partendo dal racconto umano di uno, sfortunato, giovane di Tor Pignattara, viaggiando attraverso i momenti principali delle vicende dei due processi, degli ospedali e del carcere, giungono ad evidenziare le forti incongruenze nelle quali la morte di Stefano è divenuta il ‘tragico evento’ di cui lo Stato italiano deve responsabilmente rispondere.
Vorrei che questo accadesse insieme al giudizio, qualunque esso sia, dello spettatore” (il regista, Maurizio Cartolano)

Commenti all'articolo

  • Di Giorgio Zintu (---.---.---.255) 29 novembre 2011 14:17
    Giorgio Zintu

    I casi come quello descritto sono l’emblema dell’Italia, perché un paese civile si vede soprattutto in queste cose. Ma non sembra che abbiamo fatto progressi, anzi. Tutto viene oscurato dai mezzi di distrazione di massa. E quindi sia queste vittime che le altre che sono costrette a vivere in qualche metro quadro rimangono persone senza volto su cui cala il silenzio. Per fortuna che almeno qui si tenti fare giustizia.

  • Di (---.---.---.250) 29 novembre 2011 18:18

    Che mirabile esempio di equlibrio e dignità , di asciuttta fierezza, questa Ilaria. Ha ragione Giorgio: se non si parla, si dimentica. Perciò complimenti all’autrice dell’intervista, che cerca di ricordaceli spesso i problemi che tendiamo invece a scansare. Non solo quelli, palesemente enormi, delle carceri italiane.
    Però, più che incolpare i distratti - o anche quelli "sempliciotti", ma comunque in mala fede - occorrebbe prendersela con i burattinai. O anche con chi, troppo spesso, la rivoluzione la fa solo a parole. Senza il coraggio dell’azione oltre a quello della denuncia.

    maurizio savio

  • Di (---.---.---.6) 30 giugno 2012 13:18

    Oramai va cosi’’’ condoglianze alle famiglie ma se i vostri figli non erano drogati non sarebbe successo! E basta!! Di dare colpe alle forze dell’ordine io sono il primo ad essere contro quando magari per un bicchiere di vino ad una festa di paese viene rovinata l’esistenza ad un cittadino magari di 60 anni ma qua ì stiamo parlando9 di ragazzi drogati e che magari spacciavano anche !

  • Di (---.---.---.6) 30 giugno 2012 13:19

    Io dico che gli spacciatori sarebbe meglio che morissero!

  • Di (---.---.---.40) 7 settembre 2012 10:36

    Ilaria Cucchi ha sempre dichiarato che Stefano non aveva mai subito fratture prima della sua morte. Dei referti del 2003 smentiscono tutto questo. Fu anche ricoverato 10 giorno per quella frattura.
    Ilaria Cucchi ha sempre parlato di omicio di Stato, imputando il tutto ai poliziotti penitenziari. Se dovessero scoprirsi ancoraaltre cose che la stessa Ilaria Cucchi ha taciuto, allora siamo difronte a una tentata truffa ai danni dello Stato con tutte le conseguenze che poi ne derivano. 

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