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Intervista a Fulvio Iannucci, regista del docufilm “Vinilici – Perché il vinile ama la musica”

È il primo docente in Italia ad insegnare Tecniche della Comunicazione Pubblicitaria in seminari e corsi di formazione universitaria. Autore televisivo, copywriter e documentarista di successo, il 9 dicembre, è sbarcato su Amazon Prime Video con “Vinilici – Perché il vinile ama la musica”, il primo docufilm sulla riscoperta e sul fascino autentico del vinile, di cui è regista. 

In questa intervista, Fulvio Iannucci ripercorre sensazioni, curiosità e aneddoti sul docufilm, che ha visto l’impiego di esperti, musicisti, sociologi e appassionati, come Red Ronnie, Mogol, Carlo Verdone e tanti altri, sulla bellezza introspettiva del vinile che, in tempi di disorientamento come quelli che stiamo vivendo attualmente, consentono di riappropriarci di una parte della nostra identità. 

Avvicinarsi alla valorizzazione di questo strumento significa forgiare la nostra cultura ad una sana e consapevole riscoperta di un valore autentico dei vecchi tempi che, oggi, grazie all’interesse dei giovani, sempre più assorti nel vortice della tecnologia, stanno ritornando alla ribalta. 

In questo, Fulvio Iannucci ha centrato il suo obiettivo, con l’intento che, per essere dei buoni comunicatori, bisogna essere sempre stimolati dalla curiosità di sapere, di aggiornarsi e di imparare a ripartire dagli errori con umiltà e dedizione, senza dimenticare l'approccio della comunicazione dei nostri tempi e i consigli per chi volesse approcciarsi a questa realtà. 

 

Il 9 dicembre, è approdato su Amazon Prime Video "Vinilici - Perché il vinile ama la musica", il primo docufilm incentrato sulla riscoperta e valorizzazione di un prezioso supporto: il vinile. Com'è nata in mente l'idea di elaborare questo progetto?

“L’idea di fare un film sul vinile è partita da Nicola Iuppariello e Vincenzo Russo che, dal 2008, organizzano DiscoDays - la fiera del disco e della musica a Napoli. Poi, abbiamo incominciato a sviluppare insieme la storia di Vinilici e mi è stato subito chiaro che la collaborazione con i due autori sarebbe stata molto stimolante e costruttiva. Abbiamo discusso, verificato e concordato tutti i dovuti accorgimenti cinematografici, senza sacrificare i contenuti a loro parere essenziali. Alla selezione dei temi da trattare in Vinilici, ha contribuito anche Paolo Barone, il montatore del film, che è anche un musicista ed un appassionato di vinile”.

 

Sappiamo benissimo quanto sia affascinante lasciarsi avvolgere dalle particolarità incantevoli di un vinile, come lo scroscio, i graffi del nastro, l'odore della copertina che, con i suoi evidenti segni del tempo, riesce a mantenere costante la sua attenzione. Quanto è stato importante per lei affrontare un argomento di grande impatto?

“Fare un film sul vinile è stata una scommessa non facile, soprattutto per l’enorme quantità d'informazioni reperibili sull’argomento e perché, quando si parla di vinile, si racconta di un supporto e di un’epoca leggendari. Per questo, ho deciso che Vinilici non doveva essere un documentario tecnico per pochi esperti ed appassionati, ma un film che raccontasse le esperienze di chi si avvicina al vinile nell’unica maniera possibile: con la passione per la musica”.

 

Nel docufilm, si annoverano le presenze di innumerevoli e prestigiose testimonianze, come Mogol, Carlo Verdone, Red Ronnie, esperti, musicisti, sociologi. Con quale criterio, ha selezionato il cast?

“Ci siamo rivolti principalmente a chi ha fatto la storia del vinile in Italia e a chi ha avuto a che fare in forma professionale ed approfondita con le potenzialità del supporto. All’inizio delle riprese, avevamo una determinata rosa di possibilità ma, come spesso accade nella realizzazione di un documentario, i diversi temi si sono trasformati sulla base dei nuovi contenuti emersi nel corso delle riprese. Abbiamo così sentito la necessità di ascoltare nuovi protagonisti e nuovi studiosi che si sono aggiunti a quelli programmati. Alla fine, le testimonianze di musicisti, autori, collezionisti, audiofili, venditori, sociologi, appassionati hanno costruito la storia di un’icona, il disco: dalla registrazione alla stampa, dalla distribuzione all’acquisto, dall’ascolto alla sua conservazione”.

 

Quanto è stato importante ed è ancora per lei la valorizzazione di un supporto che, come ci hanno dimostrato i tg e le notizie, quest'anno, è stato portato alla ribalta?

“In un periodo così drammatico come quello che stiamo attraversando, credo che recuperare alcune ritualità - come ascoltare un disco in vinile – può voler dire dedicarsi del tempo per riappropriarsi di una parte della propria identità ed arginare così il disorientamento in cui ci troviamo. Siccome sono cambiate molte delle nostre abitudini e, di conseguenza, i rituali che le definiscono, riscoprire vecchie collezioni di vinile, ad esempio, ed ascoltarle, con chi ci è caro, ci fa sentire parte di un gruppo: un nuovo rituale, dunque, ugualmente potente come quelli tradizionali”.

 

Tanti gli aneddoti, racconti contenuti e i vinili analizzati. Ce n'è uno in particolare a cui è rimasto particolarmente legato?

“In realtà, ce ne sono diversi, ma ne racconterò due, uno dei quali non è stato inserito nel film. Sicuramente, la scena che mi ha emozionato di più è stata l’incontro tra Ferdinando Esposito, titolare di un'antica etichetta napoletana, la Società Fonografica Napoletana, poi divenuta Phonotype, e Bruno Venturini, un nome storico della canzone napoletana, che incise i suoi primi 78 giri proprio nella casa discografica napoletana, prima di approdare alla Durium e alla Ariston. Erano sessant’anni che Esposito e Venturini non si vedevano ed avevo avvisato la troupe che non sarebbe stato possibile girare nuovamente la scena, perché si sarebbe persa la straordinarietà del momento. In un documentario, permane spesso un confine incerto tra fiction e non fiction, perché filmare una realtà vuol dire rappresentarla e, quindi, riprodurla mediante una messa in scena. Per la scena alla Phonotype, ho voluto annullare questo confine ed il risultato credo mi abbia dato ragione.

Un altro episodio che abbiamo girato, ma non montato nel film per questioni di minutaggio, riguarda un aneddoto di Carlo Verdone. Ci ha raccontato di quando il padre – il prof. Mario Verdone - gli disse che lo avrebbe portato al concerto dei Beatles all’Adriano, a Roma, nonostante Carlo non lo meritasse, perché non era una “cima” negli studi. Durante il concerto, per la ressa, gli occhiali del padre caddero a terra, rompendosi. Non vedendo più nulla, si dovette accontentare della “cronaca” che il figlio gli fece per l’intera durata del concerto, fino al fatidico momento in cui un fan arrivò perfino a rubare il cappello di John Lennon che, impaurito, decise di interrompere l’esibizione”.

 

È docente di tecniche pubblicitarie presso istituti universitari e importanti enti di formazione. Quanto è cambiato l'approccio con la comunicazione e, in generale, con quella pubblicitaria?

“La comunicazione è un argomento che affascina moltissime persone ed è anche il modo migliore che abbiamo per esprimere quello che siamo. Con la nascita di internet, del web e poi, dei social, la comunicazione è cambiata. Lo sviluppo di questi “mondi” ha portato probabilmente a una maggiore democrazia della comunicazione: ciascuno di noi può esprimere e rendere pubblico il proprio pensiero su ciò che accade, anche se questo proliferare di informazioni, cosa ben diversa dalla comunicazione, rende difficile l’individuazione di fonti attendibili ed affidabili. In pubblicità, sta accadendo la stessa cosa. Proliferano “comunicatori della domenica” che ancora pensano che il compito della pubblicità sia quello di creare slogan orecchiabili che risuonino nella testa delle persone al momento dell’acquisto. Oggi, al pubblicitario è affidato un compito molto più grande e impegnativo, quello di saper captare una tensione culturale, una tensione esistenziale e di utilizzarla per avvicinare i brand alle persone. I protagonisti delle campagne non sono più i prodotti, ma i valori legati al cosiddetto consumer insight, la verità del consumatore. In altre parole, si tratta di avvicinare il consumatore ad un’idea. Questa idea è tipicamente il benefit: un beneficio, tangibile o intangibile, che il soggetto trarrà dal consumo di un prodotto o di un servizio. I consumatori, oggi più che mai, scelgono, e non ascoltano qualunque cosa. Se si sa raccontare bene una storia, magari il pubblico vorrà ascoltare come questa va a finire e presterà attenzione a ciò che si dice”.

 

Che cosa consiglierebbe a chi volesse approcciarsi a questa realtà?

“La prima è di non immaginare di essere un artista. Il pubblicitario, così come il comunicatore, mette a disposizione la propria creatività al servizio del marketing. Si potrebbe definire un mercenario. Questo implica saper uscire dalla propria prospettiva limitata per esplorare altri modi di pensare. Significa che bisogna saper cambiare punto di vista. In fase di formazione, potrebbe risultare utile anche accettare qualche collaborazione gratuita se chi la propone può offrire un benefit in cambio, come, ad esempio, un corso di formazione o semplicemente l’opportunità di menzionare la collaborazione nel proprio curriculum. Per essere un buon comunicatore, infine, bisogna anche essere tremendamente curiosi di tutto, documentarsi, verificare e, soprattutto, imparare a fallire e ad imparare con umiltà dai propri errori”.

 

Attualmente, a quale progetto sta lavorando? 

“Ho diversi progetti nel cassetto ma, al momento, guardo il cassetto. Scherzi a parte, ho deciso di dedicare del tempo a me stesso senza sentirmi in colpa, di rallentare. Ho avuto la fortuna di inseguire i miei sogni e, piano piano, di vederli realizzati e questo mi ha reso una persona serena, più sicura di sé. Per gioco, dico spesso che un giorno non vorrò essere il più ricco del cimitero, e nemmeno il più magro quindi, godendo dei piaceri della vita, proverò ad essere il più felice del cimitero. Un giorno lontano, ovviamente”.

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