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Ilva, vittima sacrificale della sovraproduzione mondiale di acciaio​

È di ieri la notizia che Ilva continua a bruciare cassa come un altoforno ed a produrre perdite sempre più elevate, a causa delle condizioni di forte sovracapacità produttiva globale del settore acciaio, oltre che della crisi “giudiziaria” dell’impresa siderurgica. Nel frattempo, il governo italiano abbandona la cautela diplomatica e prende posizione netta contro la possibilità che dal prossimo anno la Cina possa essere classificata dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) come una “economia di mercato”. Per motivi ampiamente comprensibili.

Come segnala il Financial Times, la Cina ritiene che gli accordi relativi alla sua ammissione alla WTO, nell’ormai lontano 2001, implicassero per il 2016 l’acquisizione dello status di “economia di mercato”, con tutto quello che ne consegue in termini di difficoltà, per gli altri paesi, di imporre ai cinesi tariffe compensative in rappresaglia di eventuale dumping. Le condizioni di ampia e crescente sovracapacità produttiva di molti settori industriali cinesi rappresentano una costante minaccia deflazionistica per l’economia mondiale. I cinesi potrebbero decidere di dare l’assalto ai mercati globali per saturare la propria capacità produttiva, e di farlo con vendite a prezzi inferiori ai costi di produzione, contando sulla presenza pubblica e sui sussidi che essa implica.

Di questa situazione stanno già facendo le spese le acciaierie indiane, travolte da un fiume in piena di laminati cinesi a prezzi stracciati. Per questo i produttori locali hanno chiesto al governo di Delhi l’imposizione di dazi compensativi per 200 giorni sulle importazioni cinesi. La presenza di ampia sovracapacità produttiva globale nel settore dell’acciaio significa che la resa dei conti avverrà attraverso l’eliminazione di alcuni player, quelli con strutture di costo meno efficienti. La Cina potrebbe tentare di aggredire i mercati esteri e costringere i produttori più fragili a cessare l’operatività, per poter successivamente godere di maggior pricing power. Finché Pechino non gode dello status di economia di mercato nella WTO, è più facile che subisca dazi compensativi da parte di paesi che vogliono difendersi dai tentativi di rottura di prezzo sui propri mercati domestici: diversamente, tutto diverrebbe più difficile. E qui entra in gioco la questione Ilva.

Il governo italiano, per bocca del viceministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, sta facendo pressione sui partner Ue per non accordare alla Cina l’agognato status, sostenendo che non si dovrebbe ricorrere al “disarmo unilaterale”, che ci sono interi settori industriali in cui la Cina potrebbe spazzare via i produttori europei, e che quella cinese non è un’economia di mercato. Il problema, per noi italiani, è che in Ue i produttori di acciaio, allettati dalla possibilità di fare saltare Ilva e tagliare in tal modo parte della sovracapacità produttiva del settore, potrebbero restare sordi alla richiesta italiana, ritenendo magari di poter comunque fronteggiare la concorrenza cinese, anche dopo l’acquisizione dello status di economia di mercato.

Per l’industria italiana è un momento delicato: perdere l’acciaio equivarrebbe ad un duro colpo al tessuto industriale del paese, oltre che alla nostra bilancia commerciale. Già il fatto che le nostre importazioni di acciaio siano aumentate, nella prima parte dell’anno, del 4,2% dalla Ue e del 32% da extra-Ue è ben più di un campanello d’allarme che rischia di diventare campana a morto, per la fuga di clienti dall’Ilva. Facciamo a capirci: non è che si debba diventare protezionisti, se la propria industria domestica opera con strutture di costo insostenibili. Ma serve comunque essere consapevoli che le condizioni competitive, in alcuni settori globali, non sono un level playing field, e che dove c’è sovracapacità globale il rischio di esiti traumatici è ancor più elevato. Più in generale, l’intera industria europea farebbe bene a prendere coscienza che la Cina è ormai divenuta “altro”: un po’ meno prateria per la manifattura occidentale, molto più un potente generatore di deflazione globale.

L’azione difensiva del governo italiano è comprensibile: ma, Cina o meno, Ilva con queste condizioni di mercato rischia comunque di essere spazzata via da un punto di pareggio che appare sempre più come un miraggio nel deserto.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Antonio Russo (---.---.---.50) 7 ottobre 2015 10:49

    ...in risposta a Phastidio...

    .. a Phastidio, ed allla redazione di AgoraVox,

    Innanzitutto è per me un piacere poter commentare questo articolo.
    Non ritengo essere un luminare di ecologia (anche se posso vantare studi universitari in biologia e nel campo della ricerca in ecologia) ne tantomeno in economia.
    Mi permetto di intervenire ritenendo come validi i risultati ottenuti nel campo della ecologia e confermati in altri campi del sapere.

    Non si piò eliminare dal tuo discorso caro "Phastidio" cosa comporta produrre acciaio alla maniera della Cina e dell’ILVA di Taranto per esempio (sono di Taranto).

    Della Cina posso dirti tanto, ma vorrei rimanere all’interno dei confini nazionali.
    Vorrei farti focalizzare l’attenzione su Taranto che è un esempio di politica coloniale dentro i confini nazionali che fa scuola.
    Taranto ha prodotto acciaio per più di 50 anni incrementanto, anno dopo anno, l’emissione di agenti inquinanti nel SUOLO nell’ARIA e nell’ ACQUA, fino ad arrivare a compromettere le falde.
    I costi per la bonifica (miliardi e miliardi) che lo stato e i Riva devono pagare non si sono mai visti se non qualche briciola.
    Lo sai che a Taranto abbiamo agenti inquinanti che provocano il cambiamento del DNA umano e che vengono ereditati e amplificati da una generazione all’altra?
    In parole povere a Taranto nascono già adesso"persone OGM", cioè geneticamente modificate, grazie a quel tipo di economia dell’acciaio che tu vorresti che venga preservato, senza che tu faccia un accenno al barbaro metodo con cui questo è prodotto.
    Se dobbiamo fare concorrenza alla Cina seguendo le sue orme e quindi considerare questi effetti "collaterali"....

    Voglio dirti anche che i danni all’agricoltura alla pesca al turismo ambientale sono immensi e potranno essere oramai solo tamponati e non risolti e questo solo se si ferma l’ILVA e si fa partire una seria conversione ad impatto ambientale ridotto...esempi c’è ne sono nel mondo e non mi dilungo.
    Se hai mai letto, magari per conoscenze scolastiche di base, cosa era Taranto e perchè è stata fondata in questa posizione strategica capisci il danno ed anche la miopica politica economica che è stata condotta.

    Ma scusa: tu scrivi di economia e parli di acciaio, ma non menzioni la città in cui si produce e il collasso economico che attanaglia Taranto e tutto il sud Italia e non vedi dove è situata Taranto...
    ...siamo al centro del Mediterraneo e poremmo diventare leaders logistici nel commercio navale!
    Altro che Amsterdam dove da Suez le merci impiegano per arrivare li 10 giorni dopo rispetto al porto di Taranto!
    Amsterdam è la principale fonte di guadagno per l’Olanda e collega con canali e fiumi anche la Germania....quanti miliardi guadagnati per loro e quanti persi per noi...
    ...e per noi non intendo dire solo Tranto, ma tutto il meridione ed anche il nord si arricchirebbe eccome.
    Ma la nostra realtà è un’altra:
    Qui prodest?

    • Di roberto basile (---.---.---.101) 7 ottobre 2015 15:47
      Tutto condivisibile, sia l’articolo, sia il commento.
      Ma c’è un ma, come al solito. Purtroppo, le cose non sono mai così semplici come ci si augurerebbe.
      La questione posta da Phastidio è semplice: se rinunciamo a produrre acciaio, possiamo dire definitivamente addio al manufatturiero italiano. Basta pensare alla grande cantieristica navale, che si troverebbe presto ad essere strangolata. Tutto a favore dei competitors, in prima linea naturalmente la Cina, ma anche la Grande Germania, per la quale l’EU è solo un’espressione geografica, per usare una famosa locuzione di un loro concittadino. Da tenere presente, tra l’altro, quali saranno le ripercussioni sulla ThyssenKrupp della probabile crisi di vendite della Volkswagen per i noti avvenimenti ultimi scorsi, e come reagirà alla conseguente contrazione della domanda interna.
      D’altra parte, anche la questione posta da Antonio Russo è semplice: Taranto è una ferita purulenta aperta nel nostro territorio, in particolare nel già abbastanza martoriato Sud.
      E nessuno finora è riuscito a trovare una quadra, per dirla alla Bossi, tra l’esigenza di produrre in modo pulito e sostenibile, la necessità di intervenire sull’ambiente per salvare il salvabile, la contrarietà dei tarantini che con l’Ilva ci campano la famiglia.
      Il tutto senza tirar fuori quattrini e senza bloccare la produzione per tempi indefiniti (e impossibili da sostenere)!
      La soluzione? Russo ci dice che "potremmo diventare leaders logistici nel commercio navale", e lo pone come alternativa all’Ilva. Dimentica però di citare Gioia Tauro, che leader nel Mediterraneo già lo è.
      A parte questo particolare non secondario, l’errore a mio avviso sta proprio nel porre la questione in termini di o ...o, invece di e...e.
      O Ilva, o hub del commercio navale, insomma. Perchè non entrambe? Nel frattempo che i nostri grandi politici si gingillano con il dilemma, guardandosi bene dall’affrontarlo seriamente (si perderebbero troppi voti, chi ce lo fa fare?), non si fa ne l’una, ne l’altra cosa.

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