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Il quintetto Eternal Love di Roberto Ottaviano conclude il Padova Jazz Festival

Al centro culturale San Gaetano un omaggio alle composizioni di Charles Mingus

 

In uno spazio confortevole dotato di buona acustica, due aspetti estremamente importanti quando si sta per assistere ad un concerto, il sassofonista soprano Roberto Ottaviano (Bari, 21 dicembre 1957) ha riproposto – ad eccezione di una traccia, sostituita però da un’altra – le undici composizioni contenute nel CD di recente uscita “Charlie’s Blue Skylight” ( “la luce blu del cielo di Charlie”), con una sola, ma significativa differenza. Nel disco, Ottaviano suona in duo con il pianista Alexander Hawkins. A Padova, l’atmosfera mutava, in considerazione della presenza di ben cinque musicisti, - Eternal Love Quintet – che hanno conferito colori diversi, cercando di far emergere i numerosi aspetti di una personalità forte, ma che nella musica passava dalle grida di protesta, di aiuto, alle ironie sferzanti, ai confini con la derisione, al rispetto per il Jazz della tradizione, alla delicatezza di una canzone d’amore.

Ottaviano ha anche spiegato che il concerto, intitolato “Spirit of Mingus – The Centenary Tribute”, non è proprio un omaggio al musicista, che ha significato una sorta di bivio nella musica afroamericana, segnandone tutte le svolte successive (per esempio senza di lui non ci sarebbe stata l’ AEOC, Art Ensemble of Chicago). E’ l’idea di avere un suono avventuroso che si ricrea ogni volta sul palco.

Il gruppo inizia con Canon, un canone classico, ritmicamente libero, nel quale il sax soprano indica il percorso ai compagni.

Hobo Ho, dopo il tema, propone, nell’ordine, i solo del soprano, del clarinetto basso – un convincente Marco Colonna - e del pianoforte di Giorgio Pecorig.

Prima di proseguire, Ottaviano ringrazia l’invito dell’ideatrice del festival, Gabriella Piccolo Casiraghi, ricordando con nostalgia un concerto nella casa di lei con il pianista Mal Waldron.

Remember Rockfeller At Attica, pone in evidenza nuovamente i musicisti citati, mutando solo l’ordine dei soli : pianoforte, sax soprano, clarinetto basso.

Dizzy Moods rende omaggio al pirotecnico trombettista Dizzy Gillespie, un’altra forte personalità del Jazz del passato, in cui, nella parte B, si passa dal 4/4 al ¾.

Arriva il momento della ballad, una delicata e struggente Smooch A.K.A Weird Nightmare, nella quale si susseguono i soli del soprano, del clarinetto basso, del Fender Rhodes – uno strumento che nel passaggio al Jazz Rock ebbe una grande popolarità - , del contrabbasso, mentre Zeno De Rossi, il sensibile e creativo batterista, utilizza uno scintillante carillon.

Ad effetto la versione, non immediatamente percepibile, di uno dei capolavori mingusiani, Pithecanthropus Erectus, iniziata da un solo di clarinetto basso.

A seguire, l’enigmatica, inquietante Free Cell, Block F Tis Nazi U.S.A. precede Haitian Fight Song. L’inizio con la batteria – la cordiera silente del tamburo rullante – conferisce subito un andamento incalzante. Il Rhodes è di nuovo presente con un pregevole solo, mentre il groove cresce sempre più, man mano che i musicisti suonano.

Intrisa di malinconia, colma di tristezza è la lunga ballad Self Portrait in three Colors. Inizia Giovanni Maier al contrabbasso, Zeno De Rossi percuote tamburi e piatti chiodati con le mani, prima di estrarre dalla borsa una spazzola rossa, i fiati dialogano negli assolo.

Moanin, da non confondere con l’omonimo, trascinante brano di Bobby Timmons con i Jazz Messengers di Art Blakey, è l’unico brano assente nel CD, dove invece compare l’emblematica “Oh Lord, don’t let them drop that atomic Bomb on me”. Si fa ricordare per un piacevole utilizzo dello Hi-Hat. E’ preceduta da un commento di Ottaviano su Mingus : “E’ un’ombra che si staglia nel mondo del Jazz, cercando di scoprire le inquietudini dell’animo umano attraverso la musica”.

Il concerto finirebbe qui. Ma il bis non può mancare. Ottaviano, come nel disco, conclude la panoramica sul contrabbassista, eseguendo una rarità : la ballad Us is two, un omaggio a Duke Ellington. E’ un brano lentissimo, quasi sussurrato, in cui De Rossi usa delicatamente mani e spazzole, mentre il pianoforte sembra narrare di un tempo che non c’è più, per il quale tutti provano una forte nostalgia.

Applausi meritati per un quintetto convincente, ispirato, guidando lasciando piena libertà ai musicisti, da parte di un sassofonista di lungo corso del jazz italiano, ma che ha al suo attivo una serie impressionante di collaborazioni internazionali.

 

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