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 Home page > Tempo Libero > Musica e Spettacoli > Il quartetto di Benny Golson al Blue Note di Tokyo

Il quartetto di Benny Golson al Blue Note di Tokyo

Assisto al primo dei due set in programma il penultimo giorno. Non è un fine settimana. E’ una giornata piovosa, anche se non fa freddo. Il locale non è al completo. Mi chiedo come si possa suonare uno strumento impegnativo, quale è il sassofono tenore, a 89 anni compiuti (il 25 gennaio). La risposta è che lo vedo in forma – casualmente all’arrivo dall’albergo – ancora in posizione eretta, non appesantito. Sul palco si diverte ad intrattenere il pubblico e prima di iniziare scatta tre foto con lo smartphone, affermando di sentirsi come a “New York City”. Si siede quando non suona e lascia al trio l’esecuzione di un brano per un breve riposo. Certo, come ipotizzavo, solamente un pezzo scorre veloce, mentre gli altri sono più lenti rispetto alle versioni originali. La musica è un Mainstream da Nightclub di qualità, con del Bop non troppo Hard, ma lo Swing è sempre presente. La voce di Golson è ancora calda, il fraseggio sinuoso, l’improvvisazione dignitosa.

Il Quartetto è diretto artisticamente dal pianista Mike LeDonne, da qui a poco 62enne, che suona con il leader dal 1997. Un fraseggio senza infamia né lode, piuttosto scolastico, comunque adatto a sostenere l’anziano musicista.

Attento e preciso, dotato di un suono gradevole, si è rivelato il contrabbassista canadese Luke Sellick, non ancora 28enne, l’unico a non comparire nell’ultimo CD inciso dal quartetto, il 7 dicembre 2015, “Horizon Ahead”.

E’ l’immagine di una roccia, sia nel robusto aspetto fisico, sia nel poderoso fraseggio, il batterista Carl Allen, classe 1961, il quale, all’apertura del suo website, dichiara di ispirarsi ad Elvin Jones, Art Blakey e Billy Higgins, anche se nel suo modo di suonare, non ho riscontrato richiami ai tre grandi musicisti scomparsi. Percuote uno strumento dw, cui affianca quattro piatti più un piccolo Splash rovesciato, collocato sopra il primo piatto alla sua destra. Il primo piatto alla sua sinistra diffonde una sonorità tipica dei “chiodati”, anche se in questo caso Allen ha semplicemente collocato una catenina, come quelle utilizzate un tempo per far scorrere l’acqua nella Toilette.

Il primo dei sette brani in scaletta, per un tempo totale di 70 minuti, è “Horizon Ahead”, composto, come il secondo e il terzo, da Golson. E’ scandito in un tempo medio-lento, caratteristica di tutto il concerto, fatta eccezione del penultimo pezzo. Dopo l’assolo del tenore, parte quello del pianoforte, seguito da uno lungo e melodico del contrabbasso e da uno breve della batteria, prima di riproporre il tema per la fine.

Molto più lenta dell’originale è la versione di “Whisper not”, che ricordo nel repertorio dei Jazz Messengers di Art Blakey. Il terzo brano è l’omaggio del leader ad un collega stimato, scomparso prematuramente a 27 anni a causa di un incidente stradale, il trombettista Clifford Brown. “I remember Clifford” parte e si conclude con il sassofono tenore malinconico in solitudine. Come succede nelle Ballad, Allen utilizza le spazzole.

E’ giunto il momento di rifiatare e allora il trio esegue “Alone together”, ad un metronomo veloce ma non troppo, con numerosi breaks di otto e quattro misure, che danno modo ad Allen di mostrare la propria capacità tecnica e il tipo di esercizi selezionati per il suo stile.

Seguono “Tiny Capers”, di Clifford Brown, con il medesimo ordine di assolo riscontrato nel brano di apertura e “Uptown afterburn”, la composizione che spezza la monotonia del set. Uno Swing sanguigno e veloce, concluso da un lungo assolo di Allen, che riscuote l’applauso della platea.

L’ultimo brano funge da passerella per i musicisti, presentati dal leader. Si tratta di una versione lentissima di “Now’s the Time” di Charlie Parker, 12 misure sul solco del Blues. Non c’è fiato per il consueto bis e peccato di non aver ascoltato la scoppiettante “Blues March”,di Golson, pezzo forte dei Jazz Messengers, per altro in scaletta nel secondo set della giornata d’esordio.

 

Foto: 

Makoto Ebi.

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