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Il mio viaggio nella Palestina dimenticata

 

L’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv è deserto nel giorno di Shabbat. L’autostrada numero 1 che porta a Gerusalemme è quasi priva di traffico. Nella città si vedono solo pochi gruppi di ortodossi, almeno fino a quando arrivo alla maestosa porta di Damasco che introduce alla parte orientale della città, attraverso la trafficata e stretta via del mercato. La prima sera a Gerusalemme è soprattutto per osservare. Il giorno seguente, la prima tappa ufficiale del viaggio è la sede dell’African Community. Yassin è il primo palestinese che sento parlare. L’African Community è un’associazione ricreativa che si occupa dei giovani palestinesi di origine africana. A Gerusalemme i bambini palestinesi non hanno molte scelte oltre la strada. Yassin è uno dei responsabili di questo centro poco lontano dal quartiere ebraico e dal Muro del pianto. E’ solo il primo giorno a Gerusalemme, ma lui è subito molto netto: “Quando si viene in Palestina per la prima volta, si hanno molte domande. Ma non ci sono delle risposte da dare. Questa è la Palestina. Preparatevi, soprattutto quando sarete a Hebron. Welcome to Palestine”.

In un mondo che tende all’uguale, niente è come Gerusalemme, nel bene e nel male. Yassin ha ragione. Arrivare in Palestina comporta azzerare le proprio conoscenze, ripartire da capo. Le cose lette sui libri o riferite servono poco. La condizione di Gerusalemme è paradigmatica per l’intero paese: non si può girare per la città da soli, senza una guida, con la presunzione di capire.

Tre giorni dopo il mio arrivo è un anziano signore palestinese la nostra guida per un tour di circa tre ore a piedi. Mi accompagna nelle strade della città vecchia e una delle tappe è un complesso di case bianche. Sono case israeliane, un tempo palestinesi. “Quando gli israeliani le hanno occupate espropriandole ai proprietari palestinesi, questi ultimi hanno fatto causa in tribunale e hanno perso. Gli israeliani poco dopo le hanno messo in vendita, allora i vecchi proprietari hanno pensato di riacquistare la loro casa. Non glielo hanno permesso. Andati in tribunale una seconda volta, si sono sentiti dire che la loro casa non era vendita a palestinesi”. Alzo gli occhi al cielo e vedo una serie di case con la bandiera israeliana alle finestre. Non sono le prime che noto. Indica alloggi espropriati e destinati alle soldatesse israeliane, serrande chiuse dei molti esercizi commerciali abbandonati a causa della crisi del commercio scaturito dalla frammentazione del territorio. Parla piano, ma senza sosta, le sue parole tessono un racconto che intreccia il presente e il passato più lontano, con l’abilità di un cantastorie. Parte dalla Gerusalemme dei tempi del profeta Muhammad e delle grandi conquiste. Attraversando ancora i vicoli della città vecchia si arresta davanti ad una porta di ferro, sigillata e arrugginita . Si ricorda di quando ha subito un arresto da parte dei soldati israeliani. Il risultato dell’interrogatorio lo mostra chinando il capo solcato nella metà da una profonda cicatrice. Oltre quella porta sorgeva un circolo per adolescenti e bambini. Gli israeliani lo hanno chiuso, così come molte scuole. “Ora i bambini, li vedi, stanno tutti per strada. Non vanno a scuola e così non possono avere futuro. E che futuro può avere il nostro popolo quando i bambini vivono in queste condizioni? Qui succedono le stesse cose che in Iraq, ti ricordi? Solo che qui non c’è la telecamera” . Allarga le braccia, pieno di sconforto e riprende a camminare.

Nella strada verso Betlemme incontro il monumento più triste della città: il muro che Israele ha cominciato a costruire nel 2002. E’ un serpente di cemento e filo spinato lungo 700 chilometri, alto 8, che racchiude principalmente gli insediamenti la West Bank, una prigione che racchiude il 38% di questa. Separa case, famiglie, vite un tempo comuni. Cammino lungo questa orrenda opera, quasi aspettando di scorgerne la fine, di trovare, una crepa. Una parte del muro sorge di fronte al campo profughi, l’AIDA CAMP. Tra le case del campo e il muro dipinto, cumuli di immondizia che giace lì da chissà quanto. Il caldo intenso rende ancora più acuto l’odore proveniente da quel cimitero di scarpe, indumenti, calcinacci e tutto quello che il villaggio abitato può produrre. Vi sono alcuni cassonetti con la scritta UN, United Nation, stracolmi di immondizia.

Il viaggio procede verso sud, a Hebron. Hebron, in arabo Al Khalil, è la città più grande della Cisgiordania. La visita a Hebron è quella più attesa, dopo le parole di Yassin. “Quando sarete a Hebron, vedrete l’inferno". E’ una sorta di città proibita; quando, prima di tornare a casa, nei controlli all’aeroporto gli israeliani mi faranno domande sulle tappe del viaggio, Hebron dovrò scordarla. Entrata nella città un messaggio dell’operatore telefonico palestinese mi augura il benvenuto e mi pare una città viva, ma forse è solo caotica e la vita è un’altra cosa. Incontro uno dei responsabili dell’associazione Defence for Children. Anche lui ha avuto a che fare con la polizia israeliana. Lo hanno arrestato più volte. Ma più che parlare di lui, parla dei bambini, ragazzi di cui si occupa per conto dell’associazione. Nelle carceri israeliane si trovano anche ragazzini di 15 anni. Attualmente sono 512. Anche se le ragazze sono solo 6, gli abusi di tipo sessuale non sono rari. L’incubo inizia per loro quasi sempre la notte, il momento preferito dai soldati per le loro retate, magari mentre qualcuno di loro sogna di andare in gita verso il mar Morto, come gli ha raccontato un piccolo prigioniero. Ma il sogno di vedere il mare si spezza e diventa un incubo quando le mani delle madri scuotono i figli per destarli e avvisarli che ci sono i soldati che lo attendono; continua tra torture psicologiche e fisiche, privazione del sonno, impossibilità di lavarsi, musica ad alto volume in un cella di circa un metro. Questo perché non c’è una legge speciale che serva a giudicare i minori. Si segue la normale procedura e il giudice è un giudice militare.

L’inferno evocato da Yassin Hebron si vede quando, arrivati nella via del vecchio mercato, si alza gli occhi al cielo. Il cielo non c’è. Al suo posto, una grande rete coperta parzialmente da ampi teli che separa il mercato stesso dalle case sovrastanti occupate dagli israeliani. La rete serve per evitare che bottiglie e ogni genere di immondizia gettata dai coloni finisca direttamente sul mercato e la sua gente. Un militare di vedetta si affaccia dalle finestre della case occupate saluta con la mano. Si prosegue tra alcune botteghe colorate e altre abbandonate.

All’ingresso in sinagoga ci sono posti di blocco e vengo perquisita. In inglese stentato, freddamente, il militare mi dice che non posso entrare. Il fatto di avere dei volantini presi dalla sede di Defence for children fa di me una possibile dissidente. Cerco di spiegare che non alcuna intenzione di improvvisare una dimostrazione politica in un luogo sacro, ma non serve e vengo allontanata.

Il bus che mi riporta a Gerusalemme est viene fermato al check point che chiude l’ingresso alla città. Un soldato, anche lui giovanissimo come quelli visti in precedenza, sale nel bus e controlla il mio passaporto. Viaggio con altri stranieri, perciò il bus viene respinto e costretto a prendere un’altra strada. Anche questa porta a Gerusalemme passando per un altro check point. Il prezzo per il passaggio è l’ingresso in un lungo corridoio chiuso dove i corpi vengono scannerizzati. Per me è un’altra straniante novità, ma non per i palestinesi che lo attraversano tutti i giorni. Appena sono fuori, vedo grandi cartoni buttati al margine del marciapiede. Sono le coperte per la notte che alcuni utilizzano quando arrivano qui alle tre, quattro del mattino. E’ il tempo che si prendono per poter arrivare in tempo nei luoghi di lavoro poiché le perquisizioni possono essere molto lunghe.

Il penultimo giorno a Gerusalemme è segnato dal lungo incontro con Itamar, ragazzo israeliano che lavora per l’ICHAD, un’associazione israeliana che si batte contro la demolizione arbitraria delle case palestinesi. Uno sforzo di immaginazione, questo chiede per cercare di capire cosa si celi dietro l’espressione “Occupazione militare”. “Vuol dire che puoi essere arrestato in qualsiasi momento le autorità lo vogliano, la tua casa distrutta, che non puoi avere documenti necessari. E l’economia palestinese è dipendente da quella israeliana, come strangolata” . La demolizione di una casa palestinese può avvenire in qualsiasi momento della giornata. “Quando una famiglia palestinese si sveglia al mattino, tutti guardano attraverso le finestre per vedere se arrivano le ruspe”. Non esiste il preavviso, quindi o vedi subito la ruspa o non ti resta che sperare ancora. Tra le 15mila case dichiarate illegali, vengono preferite quelle dei resistenti e spesso le spese per la demolizione sono a carico dei proprietari. Si paga per la distruzione del proprio tetto, che deve essere sgomberato entro 5 minuti a partire dall’arrivo delle ruspe. Se si sfora, si rischia l’arresto.

Sono accompagnata a vedere uno dei più grandi settlement della zona. I coloni fanno di tutto per rendere ameni i luoghi dove si insediano, ai limiti confini dei territori dei palestinesi. Poco lontano si scorgono tank neri sui tetti. Se i tetti rossi sono il segno distintivo delle case israeliane, queste cisterne nere marchiano quelle palestinesi. Servono a raccogliere l’acqua piovana. Il settlement è un vero proprio mondo a parte nel cuore del territorio palestinese, chiuso in se stesso. Le case sono nuove, moderne, ci sono parchi con giochi per bambini, bandiere israeliane alle finestre, un servizio di bus esclusivo per i coloni.

Arrivata la sera, la stanchezza si fa sentire e decido di non uscire per la città. So già che nella città vecchia, dove alloggio, poco distante dai quartieri arabo, cristiano, ebraico e armeno, le strade saranno poco più che deserte. Il mattino seguente ascolto i racconti di altri compagni di viaggio che si sono recati a Gerusalemme ovest. Parlano di un pezzo di Occidente, un’atmosfera stile movida, boutique illuminate, locali, spensieratezza o surrogato di questa.

L’Occidente più prepotente lo ritrovo poco prima di partire, nelle ultime ore a Tel Aviv. Il lungomare che termina su un quartiere dai grattacieli imponenti, qualche bagnante che sfida l’umidità e si reca in spiaggia formano un quadro singolare insieme ai gruppi di famiglie ortodosse, quelle che arrivano a contare 7 sette figli a testa. E’ il numero auspicabile per raggiungere l’ideale traguardo di una terra tutta israeliana. Sembra però che nemmeno sette bambini per donna riescano ad arginare la differenza di popolazione che li separa dai palestinesi. Mi torna in mente una donna, una di quelle viste di fronte al Muro del Pianto qualche giorno prima, indicataci dalla guida per farmi notare come portasse una parrucca. E’ una donna ortodossa e si è dovuta rasare i capelli a zero per il suo matrimonio, per “purificarsi”. Resterà uno degli emblemi del viaggio, l’immagine di quella donna assorta verso il Muro, così come la cartina geografica appesa nella hall dell’ostello di Tel Aviv, con la sola scritta “Israele”.

Le ore dentro l’aeroporto internazione Ben Gurion sono anch’esse un’esperienza. Affollato, non come il giorno dell’arrivo. E’ il momento per ripetere le formule di circostanza, via Hebron, Ramallah, il campo profughi, le associazioni palestinesi, sì alla spiaggia di Tel Aviv, ai luoghi sacri di Betlemme e Gerusalemme, al Mar Morto. Risultato, basso livello di pericolosità, 3, per me e bagagli.

Mi tornano a mente le parole di un palestinese “Non credete ai media, nemmeno a quelli palestinesi. Per capire la situazione della Palestina, prima guardate coi vostri occhi e solo allora, giudicate”.

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