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Il fantasma della morte

La morte di Monicelli può darci lo stimolo per provare a comprendere meglio il misterioso fenomeno del suicidio.

Non voglio qui esaminare le numerose motivazioni che possono portare un essere umano a fare questa scelta estrema che in linea di massima non approvo, in quanto è una decisione irreversibile, da cui non si può tornare indietro. Si muore e basta. Non è possibile rimediare e chiedere perdono.

Ma ammetto il suicidio come eccezione che conferma una linea di condotta morale, in quanto i dogmi sono il più delle volte dei virus altrettanto mortali per gli individui e le società. L’uomo è portato a fare scelte impulsive e in molti casi si arriva al suicidio. C’è però da dire che gli esseri umani sono l’unica specie vivente in grado di annullare la propria vita ed è la vera unica cosa che ci distingue dagli animali che come noi possono comunicare e imparare. È vero che ci sono alcuni casi di animali da compagnia che si lasciamo morire di fame per la perdita del padrone amato, ma si tratta di un fenomeno sostanzialmente differente. Per questo motivo mi sono sempre chiesto come mai ci è stato dato questo dono molto particolare.

Comunque David Hume scrisse un saggio sul suicidio dove affermò che “Se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell’Onnipotente, al punto che per gli uomini disporre della propria vita fosse un’usurpazione dei suoi diritti, sarebbe ugualmente criminoso salvare o preservare la vita” (Tratto da: “Il filosofo tascabile. 44 ritratti per una storia del pensiero in miniatura”, Armando Massarenti, Guanda, 2009, p. 115).

Dunque se Dio ci ha dato la libertà di suicidarsi significa, che in alcuni casi la cosa è ammissibile e naturalmente la cosa difficile è capire in quali casi la cosa è ammissibile. Di certo non è molto ragionevole che degli uomini pieni di salute decidano i destini di un malato terminale disperato per il dolore insopportabile e la perdita progressiva della dignità, oltraggiata e torturata dal cedimento progressivo di uno o più organi vitali.

Ivan Illich, un grande teologo cattolico, scrisse sull’importanza del sentimento di libertà che va rispettato fino alla fine per entrare in comunicazione e in intimità con l’altro: “Non aiuterò in alcun modo una persona a suicidarsi; ma almeno tre volte nella vita ho dovuto dire a qualcuno, sempre persone diverse: “Non aprirò la finestra per te, ma starò con te”. E questa posizione, di aiutare ma di restare accanto – perché in questo modo si rispetta la libertà – è difficile da accettare per la gente della nostra bella società” (I fiumi a nord del futuro, Quodlibet, p.160).

Invece lo scrittore romeno Emil Cioran, pensava che l’idea di dover morire poteva produrre conoscenza: “Ricordo un’occasione in cui per tre ore ho passeggiato nel Lussemburgo con un ingegnere che voleva suicidarsi. Alla fine l’ho convinto a non farlo. Gli ho detto che l’importante era aver concepito l’idea, sapersi libero. Credo che l’idea del suicidio sia l’unica cosa che rende sopportabile la vita, ma bisogna saperla sfruttare, non affrettarsi a tirare le conseguenze. È un’idea molto utile: dovrebbero farci delle lezioni nelle scuole!”.

Probabilmente, a volte, l’essere umano non può sopportare troppa realtà (T. S. Eliot). E comunque si può considerare “il suicidio non soltanto come una via di uscita dalla vita, ma anche come una via di ingresso nella morte” (James Hillman, Il suicidio e l’anima, Adelphi, 2010, p. 17). In realtà “il problema non è se essere pro o contro il suicidio, il problema è il significato che esso ha nella psiche” (p. 61). Inoltre in alcuni casi “La sensazione di essere un peso è già talmente forte in molti di coloro che si suicidano, che sovente il gesto è compiuto per altruismo, per alleggerire gli altri di quel peso” (J. Hillman, p. 140). Purtroppo molti medici nutrono pregiudizi perché sono distratti dall’acritica lotta contro la morte biologica che fa perdere di vista la dignità e il senso della vita psicologica individuale e relazionale.

D’altra parte con il notevole incremento dell’età media e il collegato aumento delle patologie croniche e acute dobbiamo iniziare a chiederci se sia accettabile, se sia eticamente corretto nell’ottica globale in cui siamo immersi, che circa il 60 per cento delle risorse destinate alla sanità nei paesi occidentali siano investite per pagare le terapie degli ultimi giorni o mesi di vita di una persona, peraltro in genere molto sofferente (Ignazio Marino, Nelle tue mani, Einaudi, 2009). Non dimentichiamo che in molti casi l’arte della medicina consiste nel distrarre il paziente mentre la Natura cura (Voltaire), ma in molti altri casi i medici intraprendono un’inutile, assurda, costosa e dolorosa lotta contro le implacabili e vendicative leggi della Natura.

Però bisogna aggiungere che per quanto riguarda molte malattie cosiddette incurabili che possono indurre all’idea di arrivare al suicidio, è molto meglio comprendere che la scienza medica non è quasi mai una scienza esatta. Come affermato da Umberto Veronesi “La diagnosi oggi è quasi sempre certa e bisogna comunicarla con chiarezza, ma la prognosi è sempre incerta e bisogna comunicarla con speranza”. Quindi un bravo medico non dovrebbe azzardarsi di dire al paziente quanto vivrà e come vivrà (“Dell’amore e del dolore delle donne”, Einaudi, 2010, p. 91).

Inoltre secondo l’esperienza medica e umana di Umberto Veronesi, le persone non credenti in genere vivono le ultime ore della loro vita in modo più sereno rispetto ai credenti: “Il credente è costretto a confrontarsi fino all’ultimo con il dubbio angosciante di non aver vissuto rettamente, di non essersi guadagnato un aldilà dignitoso, ed è assalito dai rimpianti o dai rimorsi: al dramma della morte si somma il dramma del senso di colpa” (Umberto Veronesi, Dell’amore e del dolore delle donne, Einaudi, 2010, p. 39). Forse è per questo semplice motivo che molti cristiani italiani temono la morte. O forse è la burocrazia italiana e romana che è arrivata ad insinuarsi nel più profondo dell’anima e ci fa dimenticare che tutti nasciamo allo stesso modo, ma che la morte ci prende uno a uno e quasi sempre in modo più o meno differente, anche perché sono solo i neonati ad essere tutti psicologicamente molto simili.

Infine, dato che stiamo parlando di morte vorrei esprimere una breve considerazione sull’evoluzione dei riti che circondano l’ultima presenza tra i vivi. A mio parere fra un paio di generazioni comprenderemo che l’esposizione della salma di un morto è una manifestazione molto primitiva del cordoglio sociale. A mio parere solo i familiari più stretti dovrebbero partecipare e si dovrebbe rispettare il diritto del morto a difendersi dallo sguardo di tutti le altre persone (tra cui potrebbero esserci anche alcuni indesiderati). Bisognerebbe considerare almeno l’apposizione di una maschera sul viso. Purtroppo i morti non possono né protestare ne votare.

P. S. Forse un giorno dovrò pronunciare queste parole: “Ringrazio della vita Dio, ma caro medico le torture del dolore ora le provo io. E a te fondamentalista religioso cosa importa? All’inferno al massimo ci andrò io”.

Commenti all'articolo

  • Di illupodeicieli (---.---.---.79) 8 dicembre 2010 20:19

    Mi fa piacere che prendendo spunto dalla morte per suicidio di Monicelli tu abbia trattato questi argomenti. Come molti anch’io ho pensato alcune volte di farla finita: il fatto di essere stato dichiarato fallito nel 2004, mi ha lasciato il segno: di fatto non esisto. Per assurdo è dal 2004 che non ricevo più versamenti inps: preciso che non è per questo che ho pensato al suicidio :)
    Se mai ho terrore di soffrire , fisicamente intendo dire. In più l’educazione che ho ricevuto mi porta a pensare alla morte come qualcosa di incomprensibile: e questo mi provoca ansia, terrore, paura e incubi. Mi chiedo se sono l’unico ad avere questi pensieri cui nè i De Mello nè i pensatori orientali cui ho dedicato ore e ore di lettura e visione di video conferenze mi ha portato conforto (non pretendevo di capire...)
    Con stima Seb

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.161) 8 dicembre 2010 22:16
    Damiano Mazzotti


    In realtà quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando ci sarà la morte non ci saremo noi...

    Il problema è la fase di transizione che in Italia può essere prolungata all’inverosimile...

    E a volte "si dimenticano" pure di darti gli antidolorifici...

    Per sdrammatizzare un po’ si potrebbe dire che gli italiani amano perdere tempo anche quando è ora di morire... Si perdono in chiacchiere e discussioni puerili pure in quei momenti..

    E quando la morte chiama da lontano, per un po’ puoi fare finta di nulla e tergiversare, ma quando chiama da vicino è meglio andarle incontro più o meno serenamente, altrimenti troverà il modo di fartela pagare amaramente... è lei che comanda a questo mondo...


  • Di illupodeicieli (---.---.---.203) 9 dicembre 2010 09:30

    La frase che hai scritto , che è un pensiero (salvo errore) di Epicuro, mi consola poco: sarà perchè viaggio verso i 51, ma anche perchè nell’essere umano c’è la consapevolezza della morte. Certo so bene che ci sono i figli di puttana che ti lasciano in un letto a soffrire e senza lenire il dolore o eliminarlo del tutto: ma il mio pensiero è rivolto al durante e al dopo. Ed è qui che non c’è chiarezza o se preferisci certezza: nessuno , pare, sappia nulla. Un po’ come chi è in condizioni di aiutare il prossimo, con ipotetiche rassicurazioni ma che, stranamente, su di lui non hanno effetto. Come chi ti dà i numeri da giocare al lotto, però, guarda caso è proprio lui che te li ha suggeriti non vince mai. Per ciò che dici concordo e so che finchè saranno utili i malati verranno tenuti in vita: dopo, in futuro, sarà approvata una legge che permetterà di essere fatti fuori.

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.157) 9 dicembre 2010 09:40
    Damiano Mazzotti


    Si Epicuro...

    E Freud ha ammesso che non poteva curare i disturbi psicologici delle persone, ma poteva "solo" limitare e contenere la sofferenza umana...

    Così è la vita, così sarà la morte...

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