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Il difficile viaggio dal disprezzo di Dio all’ateismo

«C’è Auschwitz, quindi non c’è Dio», diceva Primo Levi nell’intervista rilasciata a Ferdinando Camon che sarebbe poi stata pubblicata da Guanda. Questa frase così semplice, ma al tempo stesso così densa di significato, così dirompente, era la parte finale della risposta di Levi alla domanda con cui Camon gli aveva chiesto «Cioè Auschwitz è la prova della non esistenza di Dio?», e che è stata poi riformulata e adottata quale sottotitolo del libro. Ho detto era perché poi nella versione definitiva lo stesso Levi si premurò di completare il ragionamento aggiungendo altre due frasi: «Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo».

Levi aveva ricevuto una educazione religiosa, il che è abbastanza tipico per l’epoca e per la comunità di appartenenza, ma come egli stesso afferma, di quell’educazione non è rimasta la benché minima traccia dopo l’esperienza della deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz. Quindi è lecito dire che Levi era diventato ateo? Se ci si ferma alla frase di apertura di questo articolo, così netta, si direbbe di sì. Di fatto lui non ammette terze opzioni, non vede come si possa concepire l’esistenza di un dio buono e al tempo stesso degli orrori dell’olocausto. Cosa che ad esempio Elie Wiesel, altro ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, riusciva invece in qualche modo ad accettare identificando paradossalmente l’orrore stesso, l’immane sofferenza, con Dio. C’è però poi quell’aggiunta voluta da Levi a posteriori, quelle ulteriori due frasi che sembrano un mea culpa, quasi a lasciare aperto uno spiraglio all’ipotesi che sì, forse un modo per rendere compatibili le due cose c’è, esiste. Ma non sono riuscito a trovarlo, dunque me ne assumo la responsabilità.

Non deve essere facile rinnegare convincimenti così profondamente radicati e mai messi in discussione prima. Non si può approdare a un punto di vista ateistico così, di punto in bianco, sulla base di una singola, seppur devastante, esperienza. Rimane sempre qualche strascico, qualche eco dal profondo. Anche se potrebbe sembrare un paradosso, per arrivarci serve intraprendere un percorso privo di condizionamenti dettati dall’onda emotiva. E naturalmente occorre un’elaborazione che richiede del tempo. Del resto lo stesso vale nel senso opposto, procedendo dalla non credenza a una fede qualsiasi a seguito di circostanze ed emozioni che possono essere determinanti sul momento, ma che invece sul lungo periodo potrebbero svanire. Come ad esempio avviene nelle conversioni in punto di morte, che guarda caso sono sempre verso la fede professata dalle persone vicine.

Un’esperienza per certi versi simile a quella di Levi è riportata dalle cronache dei giorni scorsi: Iolanda Deda era una bambina padovana, morta all’età di dieci anni a causa di un tumore alla testa manifestatosi appena undici mesi prima. Undici mesi passati tra radioterapia, sofferenze, momentanee riprese e brusche ricadute. Undici mesi d’inferno per la mamma, Nike, che dopo aver vissuto un’esperienza così terribile ha adesso dichiarato di non volere un funerale. «Io non credo più» è la ragione che adduce per la rinuncia. Una ragione che però non può essere ritenuta plausibile, non così a caldo.

Alla perdita di una persona cara si cerca sempre di farsi letteralmente una ragione, a volte cercando anche di identificare dei responsabili, o pseudo tali, che possono essere ad esempio persone coinvolte nell’eventuale incidente, possono essere dei medici, possono essere delle casualità. Può essere anche il dio in cui si crede, ma non è per questo professione di ateismo. È rabbia. Rabbia verso quel dio in cui si crede ma che non è stato capace, nonostante sia supposto onnipotente, di risparmiare una bambina innocente. Rabbia comprensibile, perché come dice la signora Nike: «Non auguro a nessuna mamma di vedere la propria bambina gridare dai dolori lancinanti». Che però dice poi anche di aver giustificato la morte agli altri due suoi figli raccontando loro che Iolanda è diventata un angelo, e aggiungendo infine: «Metà del mio cuore rimarrà sempre lassù con Iolanda».

Si tratta di un ragionamento che certo non è nuovo, tant’è che Diagora di Milo, primo a essere definito ateo nel mondo occidentale, pare si fosse convinto dell’inesistenza degli dei, o quantomeno della loro inadeguatezza a essere venerati, proprio per via della prevalenza del male. Esiste perfino una branca della teologia, la teodicea, che tenta di risolvere questo problema: giustificare la contemporanea esistenza di una divinità intrinsecamente buona e giusta e della presenza del male. Tuttavia le sue conclusioni finiscono non sorprendentemente per convincere solo chi è già convinto.

Qualcuno ha risolto il dilemma in modo molto semplice convincendosi che Dio non è affatto buono; è il misoteismo, una dottrina che vede Dio come una sorta di drogato dipendente dall’adorazione degli umani al punto da poter morire qualora ne venisse privato. Naturalmente la base sulla quale si fonda questa dottrina è proprio il rifiuto di qualunque forma di venerazione. Questo è già qualcosa di più vicino allo stato d’animo della signora Nike: non si nega l’esistenza di Dio, non c’è ateismo né conscio né inconscio, ma c’è una presa d’atto che la divinità, nella cui esistenza comunque si continua a credere, non può essere quella descritta da sacerdoti e teologi. Non può essere bene assoluto. Parafrasando Dostoevskij, la domanda alla quale si cerca di rispondere potrebbe essere: “se Dio esiste, perché il male è permesso”?

Massimo Maiurana

Questo articolo è stato pubblicato qui

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