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Il “decreto sicurezza bis” non cambia il sistema delle fonti sovranazionali ratificate dall’Italia

dati del Dipartimento della Pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno confermano una drastica riduzione degli arrivi dei migranti in Italia. Se nel 2016 erano 181.436, al 31 dicembre 2017 erano 119.310, dunque con i dati riferiti allo stesso periodo dell’anno precedente si registrava già allora una riduzione del 34,24%. Il 30 giugno 2018 gli sbarchi erano 16.566 e a fine anno soltanto 23.370. 

Una drastica riduzione dei migranti sbarcati era dunque evidente ancor prima dell’approvazione del decreto-legge 4 ottobre 2018 n. 113, il cosiddetto decreto sicurezza, che ha adottato anche nuove misure in materia di protezione umanitaria e di trattamento dello straniero, senza che vi fossero i requisiti di necessità e urgenza previsti dalla Costituzione. Si tratta, dunque, di una forzatura di ordine formale, che ha esautorato il Parlamento, confermando il perdurante abuso della decretazione d’urgenza. 

Il 14 giugno del 2019 è stato adottato, in continuità con le misure precedentemente approvate, un altro decreto-legge, noto come “decreto sicurezza-bis”, che prevede anche altre norme in materia di contrasto all’immigrazione illecitaordine e sicurezza pubblica (capo I). 

Le nuove norme contenute al Capo I del “decreto sicurezza bis” richiamano almeno in parte testualmente i contenuti delle direttive recentemente emanate dal Ministro dell’Interno nell’ambito della c.d. politica dei “porti chiusi”, mentre si registrano continui sbarchi con piccolissime imbarcazioni (i c.d. “sbarchi fantasma”, di cui quasi nessuno parla). Tale indirizzo del Governo italiano è stato oggetto di severe critiche da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, che ha evidenziato la sua radicale incompatibilità con gli obblighi derivanti dalle Convenzioni UNCLOS, SOLAS e SAR sul diritto internazionale del mare, nonché con il principio del non-refoulement

Il “decreto sicurezza bis” non cambia il sistema delle fonti sovranazionali ratificate dall’Italia. Ad esempio, la Convenzione SAR di Amburgo del 1979, cui l’Italia ha aderito con la Legge n. 147/1989, prevede l’obbligo di prestare soccorso ai naufraghi e farli sbarcare nel primo porto “più vicino” e “sicuro” per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Ma la Libia non è un “porto sicuro”, secondo i rapporti delle Nazioni Unite e secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Infatti, la Libia è un paese in guerra in cui migranti sono detenuti illegalmente. Neppure la Tunisia è un porto sicuro, perché non ha una legislazione completa sulla protezione internazionale. Malta in molte circostanze è un porto meno vicino di Lampedusa ai luoghi dei naufragi. Senza contare che Malta, in proporzione alla sua popolazione e superficie, ospita già molti più migranti di quanto ne accolga l’Italia. 

Com’è noto, dopo l’entrata in vigore del “decreto sicurezza bis”, nella giornata di sabato 15 giugno 2019, è stato firmato il primo divieto di ingresso, poi notificato alla nave Sea Watch 3, appartenente all’ONG tedesca Sea Watch e battente bandiera olandese. Ora la Sea Watch 3 non aveva altra scelta: o violare la Convenzione di Amburgo e le altre Convenzioni sul diritto internazionale del mare o il “decreto sicurezza bis”, che però non è in linea con il diritto internazionale generale e il diritto internazionale dei diritti umani, presentando profili di incostituzionalità. Infatti, la Costituzione italiana, art. 117, stabilisce che la potestà legislativa è esercita nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Del resto, la presenza di un espresso riferimento nello stesso decreto in esame al necessario “rispetto degli obblighi internazionali” rende più agevole il sindacato per violazione di legge, con eventuale annullamento o disapplicazione in sede giurisdizionale. 

 Nella sua ordinanza del 2 luglio 2019 sulla richiesta di convalida di arresto e di applicazione della misura cautelare, il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Agrigento ha ordinato la immediata liberazione di Carola Rackete. Infatti, la comandante della Sea Watch 3 «ha agito conformemente alla previsione di cui all’art. 51 c.p. che esime da pena colui che abbia commesso il fatto per adempiere a un dovere impostogli da una norma o da un ordine legittimo della pubblica autorità». Il parametro normativo al quale riferirsi, sia per individuare il contenuto del dovere, sia per verificare la legittimità dell’ordine impartito, deve essere ricercato nell’ordinamento giuridico italiano e, dunque, anche nelle norme internazionali che lo stesso ordinamento incorpora. 

Anche questo caso concreto conferma che per affrontare problemi così complessi come il fenomeno migratorio non serve l’abuso della decretazione d’urgenza, criminalizzare le ONG, alimentare le paure dei cittadini, alzare barriere fisiche e culturali, cercare un “nemico” esterno; occorre piuttosto una più forte collaborazione tra gli Stati e le istituzioni dell’Unione europea, nel rispetto delle norme costituzionali, europee ed internazionali. 

Foto: Dguendel/Wikipedia

 

Commenti all'articolo

  • Di paolo (---.---.---.49) 5 agosto 2019 08:59

    E’ un parere tecnico e quindi lo accogliamo di buon grado. Siccome però questo è un paese dove i pareri tecnici confliggono spesso e volentieri a seconda di come tira il vento, mi chiedo cosa aspetti l’organo giudicante competente, ovvero la Corte Costituzionale, ad esprimersi nel merito.

    Riguardo la liberazione da parte del GIP Vella di Carola Rackete è in atto un ricorso della procura di Agrigento. Vedremo se ricorrono i presupposti giuridici dell’art. 51 c.p. da lei citato.

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